Medico-Paziente

Dal divano al divino: stanchezza, obesità, dipendenze e altre malattie dilaganti dell’anima

18 Aprile 2025

Di Massimo Lanzaro, psichiatra
Riflessioni preliminari per una via d’uscita dalle emergenze del terzo millennio

Riguardo alla relazione tra scienza e religione, Einstein ebbe a dire: “La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca. La scienza contrariamente a un’opinione diffusa non elimina Dio. Mi auguro che per “religione” intendesse “spiritualità”.

Questo scritto vorrebbe essere una disamina di alcuni problemi molto attuali, ma anche un auspicio, un’esortazione ad alzarsi, in maniera reale o metaforica ma comunque costruttiva (anche solo per chiedere aiuto, cosa non sempre facile), dal divano su cui alcuni (forse molti) sono forzatamente relegati dalle vecchie e nuove pandemie: quelle che, con o senza il coinvolgimento di un virus, ci costringono a trascorrere il nostro tempo in casa, sul divano, magari nella nostra stanza usando un computer.

In Giappone si contano oltre 1 milione di Hikikomori: giovani tra i 14 e i 30 anni, principalmente maschi – tra il 70% e il 90% -, anche se il numero delle ragazze potrebbe essere sottostimato. In Italia il fenomeno è piuttosto diffuso, ma non ancora ben conosciuto. Uno studio ha identificato circa 66.000 hikikomori nel nostro Paese con un trend in crescita. La condizione degli hikikomori è caratterizzata da un rifiuto della vita sociale, scolastica o lavorativa per un periodo di tempo prolungato, di almeno 6 mesi, e da una mancanza di relazioni intime ad eccezione di quelle con i parenti stretti. Se questo è un fenomeno estremo di isolamento sociale, è lecito chiedersi come siano popolate le gamme di grigio.

Un grande studio osservazionale svedese ha evidenziato un legame importante tra la presenza di obesità nei bambini e negli adolescenti e la comparsa di disturbi d’ansia e depressione, al netto dei fattori di rischio tradizionali, quali stato socio-economico e presenza di patologie psichiatriche tra i genitori.

A quanto pare negli ultimi anni abbiamo assistito a un incremento preoccupante dell’isolamento sociale, un fenomeno che colpisce persone di ogni età e condizione socio-economica. Questo un elenco delle plausibili cause:

  1. L’effetto delle tecnologie digitali
    L’avanzamento delle tecnologie digitali ha trasformato radicalmente il modo in cui interagiamo. Mentre i social media e le piattaforme online offrono opportunità di connessione, possono anche creare un paradosso di isolamento. Le persone spesso passano più tempo interagendo virtualmente piuttosto che dal vivo, il che può ridurre le relazioni interpersonali significative e rafforzare la solitudine.

  2. Modifiche nel tessuto sociale
    Negli ultimi decenni, i cambiamenti nelle strutture familiari e comunitarie hanno avuto un impatto profondo sul nostro senso di appartenenza. Famiglie più piccole, frequenti trasferimenti di residenza e la mobilità lavorativa hanno reso difficile mantenere legami stabili. Molti individui si trovano a vivere in contesti isolati, lontani dai supporti sociali tradizionali.

  3. Stress economico e insicurezza lavorativa
    La precarietà economica ha un ruolo significativo nell’aumento dell’isolamento sociale. L’incertezza lavorativa e le difficoltà finanziarie possono portare le persone a ritirarsi in sé stesse, rendendo difficile partecipare ad attività sociali. Le pressioni quotidiane tolgono spesso tempo ed energia, limitando le occasioni di interazione sociale.

  4. Fattori culturali e stigma
    La cultura della competizione e l’ideale dell’indipendenza possono creare pressioni immense che spingono le persone a isolarsi per non apparire vulnerabili. Inoltre, gruppi marginalizzati possono affrontare un doppio stigma che diventa un ulteriore ostacolo alla connessione sociale. L’autoisolamento può quindi diventare una strategia di difesa, ma anche una condanna alla solitudine.

  5. Impatto della pandemia
    La pandemia di COVID-19 ha amplificato enormemente la questione dell’isolamento sociale. Le misure di distanziamento fisico e il lockdown hanno privato le persone delle loro routine quotidiane e delle interazioni sociali fondamentali. Anche dopo la fine delle restrizioni, molti hanno continuato a sentirsi isolati, portando a un aumento delle problematiche legate alla salute mentale.

  6. Cambiamenti nel luogo di residenza
    L’urbanizzazione ha portato milioni di persone a trasferirsi in città, dove il caos e l’anonimato possono prevalere. Le grandi metropoli, pur essendo luoghi di opportunità, possono anche rendere gli individui vulnerabili all’isolamento, poiché si perde il senso di comunità più stretto che si può trovare in contesti rurali o piccoli centri.

L’isolamento sociale è un fenomeno complesso che non può essere attribuito a una singola causa. È necessario un approccio multifocale per affrontare questo problema, includendo politiche di supporto sociale, iniziative per promuovere il senso di comunità e investimenti nella salute mentale. Solo attraverso una maggiore consapevolezza e un impegno collettivo possiamo combattere le radici dell’isolamento e favorire connessioni più significative nella nostra società.

Molti pazienti con una visione nichilistica del mondo e/o con una sindrome depressiva più o meno grave mi riferiscono di frequente pensieri suicidari, che per fortuna nella maggior parte dei casi rimangono intenti.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2021, si stima che oltre 700.000 persone si siano suicidate nel mondo. Questo rappresenta una morte ogni 40 secondi.

Le persone tra i 15 e i 44 anni sono tra quelle più colpite. È singolare che I tassi di incremento dei suicidi sono cresciuti in maniera vertiginosa in particolare fra i reduci e i militari: sembra ad esempio che in Afghanistan siano morti molti più soldati per suicidio di quelli deceduti in battaglia. Secondo il rapporto pubblicato il 21 giugno 2021 dalla Brown University, il tasso di suicidi tra i militari e i veterani che hanno prestato servizio in missione dopo l’11 settembre 2001, è di circa quattro volte superiore al numero dei soldati deceduti nelle operazioni di guerra. Ad ogni modo negli ultimi decenni, alcuni paesi hanno visto un aumento dei tassi di suicidio, mentre altri hanno registrato un calo. I problemi di salute mentale, l’uso di sostanze e fattori sociali come la disoccupazione e in particolare l’isolamento sociale giocano un ruolo significativo in queste dinamiche.

Veniamo alle note di Byung-Chul Han nel suo bestseller “La società della stanchezza”:

“Ogni epoca ha le sue malattie. Cosí, c’è stata un’epoca batterica, finita poi con l’invenzione degli antibiotici. Nonostante l’immensa paura di una pandemia influenzale, oggi non viviamo in un’epoca virale. L’abbiamo superata grazie alla tecnica immunologica. Sul piano delle possibili patologie, il XXI secolo appena cominciato non è caratterizzabile in senso batterico o virale, quanto piuttosto in senso neuronale. Malattie neuronali come la depressione, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività (ADHD), il disturbo borderline di personalità (BPD) o la sindrome da burnout (BD) connotano il panorama delle patologie tipiche di questo secolo”.

In una conferenza tenuta all’Auditorium del Goethe Institut di Roma ebbe poi a precisare: “queste cose le ho scritte di gran lunga prima della pandemia, dieci anni prima… (…) è strano che ho parlato di una pandemia influenzale che dieci anni più tardi è effettivamente scoppiata (…) e in fondo avevo ragione, perché nonostante siano decedute numerose persone abbiamo sviluppato piuttosto rapidamente un nuovo vaccino efficace. Oggi disponiamo di fatto di tecnologie immunologiche che sarebbero state impensabili ai tempi della spagnola. Finora in Corea del Sud sono circa solo 2500 le persone morte di Covid, mentre in Italia se ne contano più di 130.000. Dunque in Corea sono decedute molte meno persone di Covid che per una normale influenza e questo grazie a rigorose politiche di monitoraggio e ad altri fattori. C’è una pandemia ben più grave, quella della depressione, per cui non esiste un vaccino (…) la Corea ha uno dei tassi di suicidi più alti del mondo”.

Complessivamente a questo punto si comprenderà perché il divano mi sembra un discreto simbolo di questi tempi, che riassume la depressione, i sentimenti cronici di vuoto, la dipendenza da internet o il binge-watching, la stanchezza, la mancanza di autentiche passioni e motivazioni, il “lasciarsi andare”. È anche l’altra faccia della medaglia, l’ombra di tutto ciò che deve essere produttività, efficienza e velocità: quello che spesso porta al burn-out, per intenderci, che a sua volta spesso conduce… al divano.

Baudelaire è una canzone dei Baustelle. È il terzo singolo estratto dal loro album Amen, pubblicato nel 2008. Dice: “Avremo divani fondi come tombe / Stando a quanto dice Baudelaire”.

Forse non a caso si parò addirittura di divanisti. Casomai qualche superstite se lo stesse ancora chiedendo, la risposta è no: il Reddito di cittadinanza non ha spinto le persone a restare sul divano. Dopo la mole di dati che negli anni ha stroncato quel falso mito, ora anche una ricerca scientifica lo conferma.

 “Negli ultimi tre anni i disturbi mentali sono aumentati del 28%”, ci dice nel Febbraio 2024 Emi Bondi, presidente della Società italiana di psichiatria, rilanciando l’allarme dell’Oms, a livello globale, su un imminente sorpasso: la prevalenza delle patologie psichiatriche, come già previsto, sta per superare quella delle malattie cardiovascolari(dal sito della Società Italiana di psichiatria).

Anche secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il peso globale dei disturbi mentali continua a crescere con un conseguente impatto sulla salute e sui principali aspetti sociali, umani ed economici in tutti i Paesi del mondo.

Le sindromi dell’anima insomma sono ormai un importante e complesso problema di sanità pubblica. Si presentano in tutte le classi d’età, sono associate a difficoltà nelle attività quotidiane, nel lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari, e sono all’origine di sofferenza ed elevati costi sociali ed economici per le persone colpite e per le loro famiglie.

L’Oms sottolinea (invano, almeno per larga parte dell’Italia purtroppo) come la prevenzione e la promozione della salute mentale dovrebbero essere basate sulla consapevolezza e sulla comprensione dei segni premonitori e dei sintomi dei disturbi: in altre parole i nostri interventi sono nella maggior parte dei casi alquanto tardivi. Considerando che secondo i dati Oms nel mondo il 10-20% di bambini e adolescenti soffre di disturbi mentali e che la metà di tutte le malattie mentali inizia all’età di 14 anni e tre quarti comincia entro i 25 anni, sarebbe fondamentale che sin da piccoli i ragazzi fossero educati (sugli argomenti di cui parliamo), e sostenuti nella costruzione di abilità di vita (life skills) che possano complessivamente aiutarli a far fronte alle sfide quotidiane in maniera funzionale e non disfunzionale come spesso accade. Anche questo genere di lavoro, che comprende la formazione e l’informazione in ambiente scolastico in Italia scarseggia, per usare un eufemismo.

Il PNRR ha destinato alla Missione Salute € 15,63 miliardi, pari all’8,16% dell’importo totale, per sostenere importanti riforme e investimenti a beneficio del Servizio sanitario nazionale, da realizzare entro il 2026. Di fronte a questa straordinaria occasione riformatrice vogliamo sollevare una sola annotazione critica. Non si legge nel testo una sola parola riferita alla, pur necessaria, implementazione delle risorse destinate ai servizi comunitari per la salute mentale. Si presume che le risorse da destinare a quest’ambito saranno da ricavare nell’ambito della “missione 6”, quella genericamente destinata alla sanità o nell’ambito delle risorse destinate alle CdS.

Ma dubitiamo fortemente che si potrà mai andare oltre quello stentato 3,3% destinato di media negli ultimi anni, che rappresenta poco più della metà di quel 5% del PIL delle Aziende Sanitarie Locali, indicato in tutte le norme di riforma sanitaria, dal 1978 a oggi.

Sto seriamente considerando l’ipotesi di scrivere un volume approfondito su questi argomenti. In questo libro immaginerò che le persone che al momento sono sul divano hanno dei particolari tratti di personalità, o hanno problemi come la demoralizzazione e la depressione o sono affetti da qualche forma di dipendenza. Queste mi sembrano al momento le cause più plausibili del “lasciarsi un po’ andare” (forse sto usando un eufemismo). Quindi mi porrò la domanda fondamentale: è possibile l’auspicata transizione “dal divano al divino”? Se si, come?

Intanto cerco di spiegare cosa intendo per “divino”: innanzitutto una dimensione spirituale. Jung definiva il numinoso (divino) ciò che stabilisce un confronto con una forza che porta con sé un senso non ancora svelato, che affascina il soggetto, un disvelamento permeato di sacro. Una rivelazione di senso, che porta con sé anche delle motivazioni. Che giunga durante una psicoterapia, che venga da un’intuizione, che sia ispirata dalla lettura di un libro, da un incontro imprevisto, dal creare o dalla fruizione di un’opera d’arte.

Al momento, per quelli “costretti” sul divano, vedo la pratica della spiritualità, del lavoro su se stessi, della mindfulness come alcune realistiche anche se impegnative vie d’uscita. In realtà anche per le persone affette ad esempio da una grave depressione o da una psicosi, una volta guarite grazie all’aiuto di professionisti, si può paventare un analogo percorso di ricerca e di crescita.

Massimo Lanzaro è Dirigente Medico di Psichiatria, Psicoterapeuta e saggista. Divulgatore scientifico, è stato Primario al Royal Free Hospital di Londra. I suoi volumi più recenti sono “Il medico dell’anima” (YCP, 2021) e “Lo schermo e la diagnosi” (Mimesis, 2019).