26 Novembre 2024
Prima testimonianza – Di Bianca M. Ruffino
Anoressia si presenta come attraente perché fa credere di essere un luogo sicuro. Un nido. Un nido pascoliano. Pascoli fuggiva dal male oscuro della vita, regredendo al nido. Io fuggivo dalle insicurezze, dal dovere di perfezione, dal dover essere, regredendo nella malattia. Anoressia è subdola: fa credere di poterci aiutare, mentre il suo vero scopo è quello di prosciugare tutte le emozioni. L’anoressia fa credere che a comandare sia tu. Convince che tu possa avere il controllo e possa dettare le regole del gioco. Finge di eliminare il dolore, mascherandolo; invece, lo coltiva.
È micidiale, perché fa sentire potenti. Fa svanire il tanto temuto giudizio degli altri, perché getta nel baratro della solitudine, in un buco nero dal quale non dà modo di uscire. Toglie ogni pensiero e ogni preoccupazione. È proprio questo il suo punto di forza. Non c’è più tempo per pensare a altro. È ingannatrice.
Promette potere, invece intrappola nelle più perverse ossessioni. Anoressia ruba la mente e il corpo. Usa la mente per succhiare peso. E più scende il peso, più si complimenta con il suo ospite, incitandolo a continuare, fino a farlo scomparire. Ho immaginato Anoressia come un verme penetrato nel mio cervello. Il verme cresceva man mano che io scomparivo, alimentandosi al posto mio. Aveva parti del corpo di ogni persona che mi aveva fatto del male, approfittando di me.
Mi parlava, complimentandosi con me per ogni atto mortificante che mi auto infliggevo; rassicurandomi che in quel modo avrei allontanato le delusioni; offendendomi se cercavo di ribellarmi. La voce era forte e chiara. Anoressia non smetteva mai di parlarmi. Una sola promessa ha saputo mantenere: non se ne sarebbe andata mai via da me. In effetti era sempre con me.
Eravamo in due: io e il verme.
Cosa durante la cura mi fece scattare l’idea di lasciare l’anoressia? Mi chiesi un giorno perché dovessi farmi tanto male, perché dovessi subire io questa violenza. Ho chiamato mio papà, gli ho parlato del mio dolore. Ho conosciuto una dietista che mi indirizzò a due psicoterapeuti, lasciandomi la scelta. Sembra buffo, ma sentiti i nomi dei dottori non ho avuto dubbi. Sapevo chi mi avrebbe portato fuori dal tunnel per farmi vedere la luce. Mi ricordo la prima visita: ero impaurita, dominata dall’anoressia. Disse il mio terapista: “Ci dobbiamo piacere entrambi, io ti devo piacere e tu devi piacere a me, trovare il terapista giusto è già un traguardo”.Conquistò il mio interesse.
Non è stato facile, non è facile.
Iniziai la terapia nel marzo del 2022, due anni fa.
Durante la cura ho avuto l’opportunità di frequentare il secondo semestre della quarta liceo in Canada. La decisione di partire per allontanarmi dai luoghi in cui mi ero ammalata e dal giudizio altrui è stato il primo scacco alla malattia. In Canada sono stata benissimo, libera da ogni giudizio. Non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me. Ho vissuto con le mie regole, ho giocato con le mie carte. Lì ho scoperto che ero capace di giocare e di essere me stessa. Da questo momento il Verme ha perso tutte le sue parti del corpo e persino la sua voce. Sono passata dal buco nero della solitudine più desolante a festeggiare con un vestito da fiaba accompagnata in Limousine alla sera del ballo di fine anno americano. La donna che sono ora non è minimamente paragonabile alla ragazzina con l’anoressia. Ho riconosciuto la gioia di vivere, ho imparato ad assaporare la mia vita come mai prima. Ho deciso di guarire, sono guarita. A poco a poco iniziavo a parlare di me nelle sedute, non della malattia. È stato questo uno dei momenti più belli della mia vita, io mi stavo scoprendo! L’anoressia nasconde la personalità, oscura la persona. Io ho vinto e la mia personalità sta venendo fuori. Ho ancora tanto cammino da fare, ma ho sentito e continuo a sentire l’emozione grande di poter amare, di apprezzare e di accettare quel che sto finalmente conoscendo di me.
Seconda testimonianza – Di Azzurra Ferrari
Ripercorrere quei momenti e quelle emozioni non è per niente facile. Si prova un profondo dolore che altro non è che il sentimento nascosto dietro a quella sensazione illusoria di onnipotenza. La malattia non so dire come arriva. Tutto è così veloce che non hai modo di pensare. Il cervello si spegne. Non esiste più il pensiero. La razionalità qui non è ammessa e successivamente anche le emozioni. Posso solo affermare che lei è subdola, si insinua piano piano nella tua mente e lo fa creando immagini di te “divine”. Si impossessa della tua persona e non ti abbandona mai. Si nutre di qualsiasi mezzo per arrivare al suo obiettivo. Nel mio caso i social hanno sicuramente contribuito a far sì che lei potesse alimentarsi della mia mente oltre che della mia anima.
Tu non sei abbastanza. Abbastanza bella, abbastanza forte, abbastanza intelligente, abbastanza adeguata, abbastanza precisa, abbastanza perfetta.
È qui che scatta la voglia di prendersi cura di qualcosa, di occupare la mente pur di rimanere fermi. Porsi un obiettivo. Raggiungere un’ideale di donna perfetto che possa cosi essere all’altezza di questo mondo cosi crudele e insensibile. Essere finalmente qualcuno dove nessuno potrà mai dire qualcosa perché finalmente perfetta. Non vedi più nessuno, non ascolti più nessuno. Ogni giorno avevo un’idea nuova, un’energia fuori dal normale, inesauribile. Nel mio caso posso dire che ho sempre vissuto coi pensieri accelerati e poche erano le fasi depressive, probabilmente perché rimanere ferma comportava sentire. E io le emozioni le avevo bloccate. Direi congelate. Odiavo percepire. Odiavo ogni tipo di sentimento. Però era tutto bello, finalmente ogni giorno avevo un compito: fare attività fisica. Un dovere. Un obbligo al quale non potevo rinunciare. Valeva più di ogni altra cosa al mondo e via via che passavano i giorni il tempo dedicatogli non era mai abbastanza. Ogni volta che terminavo il mio” lavoro” tornavo a casa e correvo davanti allo specchio nella speranza di vedere qualche risultato soddisfacente. Puntualmente la mia risposta era: “Domani andrà meglio”.
Da qui, il crollo.
Le ossessioni, i deliri, le notti insonni, le manie di persecuzione. Avviene la trasformazione, ovvero, la differenza sostanziale tra quella che sei e quella che diventi. Ricordo l ’aggressività, la ferocia, la rabbia cosi prepotente nel voler portare avanti quello che realmente vedevo e percepivo in me nonostante la situazione critica in cui mi trovavo. La rabbia nasce contro tutti quelli che intendono aiutarti.
Accettare di avere una malattia mentale non è facile. Accettare e comprendere che lei è il tuo nemico e non una condizione normale dell’essere è difficile e porta dolore. Il dolore nel percorso di cura è sempre presente. Si evolve. Cambia. Posso dire che una volta che si prende realmente coscienza di tutto e che ne sei fuori (almeno in buona parte) quello che ti lascia è micidiale. Quasi quasi pensi che era meglio prima ma poi ti fermi e inizi a ragionare. A lavorare su te stesso. A dialogare. Inizi a ricordare chi eri, da dove vieni, che cosa ti piace, cosa invece non accetti. Inizi a vederti. E piano piano ritrovi piacere nel farlo. Nell’inconscio scatta una voglia diversa di voler vivere la vita. Ti accorgi che forse il cambiamento non è poi così male e che la vita è bella anche se non pianificata. La fase necessaria è il modo con il quale il terapeuta entra in connessione con te. Il mondo che hai dentro, le incomprensioni. Il modo con il quale decide di ascoltare chi sei e cosa vuoi senza giudicare ne sentenziare. Ci vuole delicatezza, costanza, tempo. Bisogna dare e darsi tempo. Quello è fondamentale. La famiglia è un tema importante in questi disturbi. Devono esserci e non esserci. Difficile lo so. Perché purtroppo l’anoressia è cosi: vuole, ma non vuole. Un macello. Per questo bisogna affidarsi. Quello che si vede non è reale. La pienezza, l’ingombranza, il senso di colpa. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la normalità. Ecco perché i miei amici si godevano feste, aperitivi, natali, compleanni, passeggiate, serate… senza pensieri!
Nei miei numerosi momenti di up sono arrivata a compiere atti che mai pensavo di fare. Rubare nell’azienda stessa in cui lavoravo da anni, probabilmente solo per riuscire a fare chissà quale serata top, dove sicuramente non avrei mangiato nulla, ma avrei postato foto al fine di dimostrare a “qualcuno” che anch’io valevo qualcosa. Che anch’io potevo avere un posto nel mondo. Sono arrivata a sfrecciare con l’auto a velocità inaudite prendendo non so quante multe. Ho buttato via centinaia e centinaia di euro dal parrucchiere. Extension da 400 euro a seduta. Ho bruciato i miei risparmi in pochi mesi senza senso alcuno. Ho avuto un colpo di sonno alla guida rischiando la morte. Il sonno non esiste. La pace, un lontano ricordo. Ho voltato le spalle alle persone che amo di più al mondo: la mia famiglia. L’ho trasportata in un tunnel senza luce. Mi sono costruita una gabbia d’oro fatta di grandi illusioni e forti giustificazioni solo per paura di lasciare quella zona che tanto era confortevole e che tanto amavo.
“Mi volete modificare!”. “Mi volete grassa!”.
Queste erano le frasi perenni che sbattevo in faccia a tutti coloro che cercavano di lottare contro di lei e non contro di me. Ero diventata un robot. Ero diventata un essere senza sentimenti. Il sesso dimenticato e qualsiasi tipo di relazione era una paura. Scongelare le emozioni è stata dura. Mettersi a nudo ogni giorno è combattere. Quando pensi di aver raggiunto un equilibrio piuttosto stabile ecco che arriva la “parolina” poco gradita o non appropriata che ti fa cadere di nuovo e pare mandare all’aria quel tanto duro e faticoso lavoro della settimana. Un sali e scendi. Una montagna russa. Un percorso mai lineare. Uscire dalla malattia comporta sacrificio, stanchezza e dolore. Devi prendere coscienza che è una lotta continua, un ricordare di armarsi appena ci si sveglia Un portare l’ombrello anche con giornate di sole. Però posso dire che è qui che impari a vedere le sfumature della vita. I colori che questa ti porta. Riesci a capire che si può vivere anche alla giornata e che forse a tutto c’è una soluzione. Che se non fai quella strada ne puoi fare sempre un’altra, che alla fine a destinazione ci arriverai ugualmente. Senza perderti. Devi rischiare. Rischiare porta paura ma è necessario per uscire dalla gabbia. A me il corpo mi stava abbandonando. Ricordo che avevo sempre freddo, bevevo lunghissimi caffe e litri di tisane. Andavo a letto con la borsa dell’acqua calda, e le caviglie gonfie, avevo peli su tutto il viso e i miei capelli mi rimanevano in mano. Questo purtroppo non lo dimenticherò mai.
Non dimenticherò niente di tutto quello che vissuto e provato. Io sono morta quel giorno e rinata il giorno stesso. Attraverso le varie fasi dell’anoressia, a un certo punto, si arriva ad un bivio: o vivere o morire: è proprio di fronte a quel bivio che bisogna riuscire ad avere il coraggio di scegliere la felicita, di sbloccare quella paura, di crescere, di non rimanere in un corpo di bambino, ma di accogliere le emozioni, sentirle, conoscerle, capirle, viverle… affinché si possa finalmente riuscire ad assaporare la liberta di essere chi siamo.
Io personalmente quello che mai mi perdonerò è la consapevolezza di aver fatto soffrire determinate persone. Chissà quante domande si sarà fatta mia madre senza darsi mai risposte, quanti le notti in bianco di mio padre per cercare di trovare la strada migliore, gli attimi di solitudine che avrà provato mio fratello. Purtroppo è un senso di vuoto che non riuscirò a colmare e anche se loro stessi mi diranno che non è così io so già che mi porterò nella tomba questo macigno e che niente e nessuno potrà farmi cambiare idea. Sono fatta così. Di certo quello che mi fa andare avanti è che tutto il cammino che ho fatto, tutto il lungo viaggio che ho affrontato e che ancora oggi compio ne vale la vista meravigliosa che riesco a vedere. L’anoressia è una patologia che va curata esclusivamente con un’equipe medica specializzata (psichiatra, psicologo e nutrizionista), ci vuole l’utilizzo dei farmaci perché possono alleviare psicosi, allucinazioni visive e deliri. Mai trascurare il sonno, è importante far riposare il nostro fisico. Ascoltiamo le persone che abbiamo vicino, loro non vogliono modificarti o cambiarti. Vogliono solo cercare di lottare contro la malattia e non contro di te! Ringrazio vivamente i miei medici perché attraverso i loro modi gentili e discreti e le loro ponderate decisioni hanno cercato di capire il mio mondo complesso senza mai giudicare nè sentenziare. Loro mi hanno sempre vista, nonostante la malattia. Grazie di cuore.
Terza testimonianza – Di Camilla Tallone
L’anoressia è stata tutto per me per tanti anni, un tutto unificante, totalizzante. Ero alle soglie dell’adolescenza quando la conobbi e ne rimasi ammaliata. Se la dovessi “personificare”, la descriverei come una signora esile, dal profilo sottile, dita leggiadre, un po’ ossute (ma non troppo), capelli lunghi corvini, modi raffinati e perchéé no? Un tailleur di Chanel. Venne a bussare alla mia porta in uno dei tanti momenti di buia solitudine di quel periodo in cui cercavo spasmodicamente una via di fuga dalla freddezza di una famiglia frammentata. Mi tese la mano e con la sua voce armoniosa mi invitò a seguirla. Iniziò così la mia avventura nell’intricato mondo dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (come ora vengono pomposamente etichettati dal DSM). Cosa mi colpì di lei? Credo principalmente due cose (tailleur di Chanel a parte): onnipotenza e tempo. L’essere umano per sua natura è tormentato da quell’insostenibile leggerezza, che lo spinge a porsi interrogativi esistenziali sconcertanti, rimirando l’infinito da dietro la siepe dei suoi limiti in un naufragio che, almeno per la sottoscritta, di dolcezza aveva poco. Sul ciglio di questo baratro, lacerata da un senso di vuoto e di finitudine indicibili, Lei (l’anoressia) mi regalò la possibilità di controllo: controllo sul cibo, controllo sui cosiddetti “bisogni primari”, controllo sui miei istinti, sui pensieri, controllo dell’Altro, quell’Altro che tanto mi spaventava, di cui non sapevo cosa farmene e che con Lei al mio fianco potevo tenere in scacco, scacco matto. E poi il tempo…dannato tempo…
Cosa intendo per tempo? Mi riferisco al suo trascorrere inesorabile, al suo fuggire via e all’angoscia che questo suscita: un’angoscia atavica senza consolazione. Difficile da descrivere a parole…quella che si sente nella carne guardando l’incipit di “Sussurri e Grida”: una stanza rossa e il ticchettio asincrono di orologi, tanti orologi, a ornare pareti e mobilio e a ricordarci quanto la nostra esistenza sia effimera e insignificante. Ma con Lei, la mia compagna, la mia signora, tutto questo veniva cancellato dall’illusione di poter fermare il corso degli eventi, di poter fissare il mio essere nel tempo e nello spazio: un corpo bambino, senza tracce di donna, un corpo controllato, un burattino al servizio dell’anima in un dualismo cartesiano diventato ossessione paralizzante. Fu così che, senza accorgermene, anzi convinta di avere in mano le redini della mia vita, finii nel baratro, nella voragine della cieca anoressia, schiava di quella donna elegante vestita di rosa (l’anoressia) che piano piano si rivelava essere una figura demoniaca, come un “vampiro” nel mio cervello, una sorta di tumore che non riuscivo a combattere perché…udite, udite…bramavo profondamente, volevo senza riuscire a farne a meno. E oggi? Beh sono qui.
Vivo da sola da qualche anno, mi sono laureata in Medicina e Chirurgia e aspiro, tra un dubbio e l’atro, a diventare una psichiatra. E lei? Difficile a dirsi… Lei è ancora con me in un certo senso: mi accarezza dopo una giornata frustrante, mi sussurra nell’orecchio con il suo fascino irresistibile…la vedo per strada nelle gambe ossute di una ragazza o la cerco nei momenti dolorosi della mia quotidianità, quando tocco le mie coste alla ricerca della magrezza rassicurante come facevo ai bei vecchi tempi…la sento nella mia pelle quando incontro, anche solo di sfuggita, la mia immagine riflessa e quasi non la riconosco e con fare un po’ schifato tra me e me commento “Che grassa!”. Ma resisto a quella vertigine, a quella voglia di cadere, mi aggrappo alla vita, rinunciando a quel godimento mortifero che ora riconosco come tale. Ogni tanto mi sorprendo a chiedermi: si può guarire? Credo che la risposta sia: dipende, cioè dipende da cosa si intende per guarigione. Per me la guarigione è stata trovare un equilibrio seppur instabile, cogliere gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza anche nelle crepe dell’esistenza, sentire e accogliere il desiderio, desiderio di una passeggiata tranquilla la domenica mattina, del caldo abbraccio di un amico, del sapore di un cibo nuovo, di un tè caldo in compagnia di un buon libro in una giornata uggiosa che piange tutte le sue lacrime. Come sia stato possibile questo cambiamento forse neanche lo so: così come sono silenziosamente scivolata nella morsa dell’anoressia così ne sono uscita, in punta di piedi, lentamente, seppur devo ammettere dolorosamente. Sono stata e sono una paziente ostica, incline al sabotaggio di qualsiasi tipo di tentativo di aiuto, molto amante della pars destruens e della “critica per la critica” e senza idea alcuna che potesse anche solo remotamente esistere una pars construens. Insomma una di quelle che in pausa caffè gli operatori sanitari e i medici, intendo quelli che certo non brillano di grande umanità, apostrofano per descrivere il caso in maniera “efficace” con uno sbrigativo “anoressica border con dinamiche disfunzionali senza grosse prospettive per il futuro”. Fortunatamente, in quelle pause carte c’erano anche, purtroppo pochi va detto, sanitari dotati di visione, coraggio e di quel pizzico di follia che permette di andare oltre l’apparenza, al di là dell’anonima superficie. Credo che siano state queste persone a fare la differenza e ora che ripenso a tutti quegli anni di sofferenza filtrati, come solo la nostra memoria sa fare e rabboniti perché spogliati della crudezza del presente, mi sento in dovere (credo soprattutto verso me stessa), pur non essendo assolutamente nel mio stile, di ringraziare (forse un po’ mielosamente, lo ammetto, il dott. Antonio Maria Ferro. La terapia in maniera ferma, asciutta, a tratti severa, mi ha mostrato la possibilità di una via di uscita e questo sguardo nuovo ha reso possibile il cambiamento. Così ho conosciuto (e non uso questo termine a casaccio) la mia famiglia, ho scoperto le loro solitudini, le loro paure e ho iniziato a condividere le mie…Ho imparato a prendere l’autobus, a resistere in classe senza attacchi di panico, a non vedere in un cucchiaino d’olio un mostro indistruttibile…e forse la cosa più importante, ho assaporato il calore di affidarsi all’Altro. Vorrei dirvi che ora va tutto bene, ma non è così: la vita non è semplice, ma paurosamente intricata e la donna in rosa, la tanto amata anoressia, che voleva vendermi l’illusione di completezza, di pienezza, mi stava ingannando, ahimè un inganno dolce piacevole dal profumo di gelsomini e lillà, ma un tremendo e subdolo inganno. E quindi sono qui a raccontare come io oggi, per quanto difficile sia, ogni giorno accetto l’imperfezione, l’insignificanza, la profonda limitatezza e la disarmante impotenza che forse sono quei lati apparentemente oscuri che rendono unica, irripetibile e stupendamente fragile la nostra vita. Sono uscita dal mio nucleo autistico di sicurezze false, infantili…ho buttato giù quel castello o forse meglio dire prigione di sabbia e ho imparato a cogliere la bellezza dell’insignificanza come Kundera ci ha magistralmente esortati a fare…e ho scelto di diventare psichiatra o almeno ci sto provando: perché nell’inferno della malattia mentale che logora, trasforma fino a uccidere è necessario che ci sia un Altro capace di intravvedere la bellezza dell’anima, come un sacchetto di plastica danzante in una giornata di vento, sospinto da un soffio quasi magico: solo così è possibile “far ripartire una vita”, solo così è stato possibile per me essere qui oggi.