Storie

Malasanità: un’altra storia amara

26 Settembre 2024

NON BISOGNA AVER PAURA DI RACCONTARE CERTE ESPERIENZE VISSUTE, PUR SE AMARE: AIUTANO A MIGLIORARE!

Tutto inizia con il ricovero di un giovane, portato d’urgenza all’ospedale a causa di un politrauma causato da un incidente stradale in cui è stato coinvolto, suo malgrado, perché speronato mentre era col suo motorino, da un’auto che non rispettando lo stop, lo ha preso in pieno. Nell’incidente il giovane ha riportato frattura pluriframmentata della testa dell’omero di Sx e frattura del piatto tibiale, più frattura da schiacciamento del terzo superiore della tibia di Sx. I soccorsi lo hanno portato al P.S. di un Ospedale romano e ricoverato al reparto di ortopedia. Il giovane è stato poi operato dopo due giorni di degenza all’arto inferiore di Sx e dopo altri tre giorni all’omero, sempre di Sx.

Nei due interventi, si è reso necessario, come è stato riferito al paziente da un sanitario, l’utilizzo di mezzi di contenzione metallici, placche e viti per l’osteosintesi.

Fin qui, nulla questio. Ma proprio dopo i due interventi, ecco iniziare la storia amara.

Nessun medico di reparto, primario in primis, si è mai fatto scrupolo di avvertire i parenti più stretti, con in testa la moglie, di ciò che era stato fatto in sala operatoria e quali fossero nel futuro gli sviluppi post-operatori. Alla richiesta di un colloquio, per avere notizie sul caso, venne risposto che il tutto era stato illustrato al “paziente” e che se si fosse voluto sapere di più o magari parlare con qualche sanitario del reparto, si sarebbe dovuto prendere un appuntamento telefonico: questo perché si era in regime di Covid- 19.

Venne così data l’informazione che nella bacheca, posta fuori la porta di entrata nel reparto, c’era un cartello con tutte le istruzioni ed il numero telefonico da comporre per prendere un appuntamento con qualche sanitario. C’è da aggiungere che l’entrata nel reparto per la visita al paziente era regolata in maniera “pesante”, la sera alle ore 18,30, sempre con la giustificazione (più che giusta!) che si era in regime di Covid-19. Ciò comportava che solo una persona dovesse entrare per visitare il paziente e sempre munita di green pass. Ma una volta entrati, se uno avesse provato a cercare qualche sanitario, la risposta era sempre la stessa: “Occorre prenotarsi per telefono, il numero lo troverà in bacheca appena fuori la porta di ingresso”.

C’è da sottolineare, però, che mentre l’entrata dei visitatori era regolamentata da queste ferree norme Covid-19, nulla era chiesto per l’andirivieni di addetti o no al reparto (portantini, infermieri e medici di altre strutture) che, protetti solo dalla mascherina, entravano ed uscivano senza problemi, come quelli che portavano i carrelli del vitto o come i tecnici di radiologia con gli apparecchi per esami a letto o ancora quelli che portavano nuovi malati sui letti mobili. Il numero telefonico per prendere un appuntamento con qualche sanitario del reparto venne fatto e rifatto nelle ore indicate nella locandina appesa in bacheca per giorni e giorni, ma mai nessuno ha risposto, fino a quando il paziente è stato dimesso, informando lui stesso i parenti del giorno delle sue dimissioni, e avvertendoli di portare una carrozzina, perché impedito a camminare. Ma nemmeno in quella circostanza qualsiasi sanitario si è fatto vivo, anche solo per salutarlo e con l’occasione dare ai suoi familiari istruzioni per il suo nursing (terapia medica, riabilitativa e quant’altro…). Il tutto si trovò scritto in una scheda di dimissione data in mano solo all’interessato.

Nella scheda, si trovò come attivare da subito la terapia riabilitativa a domicilio con la presenza anche di una équipe di infermieri per le dovute medicazioni della breccia operatoria, oltre che per il suo costante controllo sull’evoluzione in guarigione.

Ma le cose, una volta tornato a casa il paziente, cominciarono a prendere una piega negativa, a distanza neanche di qualche settimana dalla dimissione, e veniva constatato che nella breccia chirurgica si erano formati due granulomi dai quali, sia spontaneamente, sia spremendo la ferita, usciva materiale colliquativo di colore rosso scuro; inoltre coesistendo una visibile tumefazione di tutta la gamba, si pensò di anticipare la visita di controllo presso l’ambulatorio dell’ospedale.

C’e’ da dire che nel frattempo il paziente che si rese subito conto che le cose non andavano bene, si fece venire a casa un radiologo per un controllo radiografico privato della gamba, mentre si preoccupò pure di farsi una elettromiografia privata alla stessa gamba, stante il fatto che avvertiva insensibilità al collo del piede Sx, e difficoltà a muovere le dita del piede stesso e la caviglia.

E che le cose non andassero bene, balzò agli occhi del sanitario di turno in ambulatorio, nella visita di controllo anticipata. Questi, cercando di tranquillizzare il paziente, gli suggerì di affidarsi ad un infettivologo, “perché (a suo dire) l’infezione creatasi localmente poteva essere dominata da una terapia antibiotica mirata, dopo esame colturale”. Così fece e così si seguì una terapia antibiotica per circa dieci giorni. Ma non ancora mostrando segni di andamento positivo loco-regionale, il paziente richiese di anticipare di nuovo il controllo ambulatoriale, controllo che esitò in un ulteriore ricovero d’urgenza, ricovero resosi necessario per revisionare la breccia operatoria, nel togliere ogni contenzione metallica alla gamba sx, ritenuta colpevole dell’infezione, e favorita, questa decisione, dalla verifica di una certa saldatura della frattura.

Non è stato facile avere queste informazioni; vennero date solo perché ci si rese conto che l’esecuzione del primo intervento avesse avuto un qualche punto nero, tanto da favorire questa complicanza, che ha obbligato i chirurghi a rimetterci le mani. È finita qua? Neanche per niente! I successivi controlli ambulatoriali sono stati fatti sempre da sanitari diversi e da quanto risulta solo il primo controllo è stato fatto da un sanitario dell’équipe operatoria, gli altri da sanitari turnanti.

Alla luce di questa mala gestione del paziente, il paziente stesso non sprovveduto e con una buona dose di riflessioni, ha abbandonato l’essere seguito dai sanitari dell’ambulatorio del reparto dove era stato operato, per affidarsi poi ad un professionista privato, dal quale tutt’ora è seguito e con buoni risultati.

CONSIDERAZIONI

Che in Medicina “due più due non faccia mai quattro”, è risaputo da una vita, ma la storia raccontata vuole mettere in evidenza carenze quasi mai dette, forse per paura o vergogna, ma che accadono veramente in ambiente soprattutto ospedaliero, dove, da come si narra nella storia, il colloquio dei sanitari con i pazienti, ma soprattutto con i parenti, sia quasi inesistente, non solo, ma il paziente operato quasi mai viene seguito da chi materialmente ha condotto l’intervento.

E non è difficile avere la prova di ciò: basta fermarsi alla porta di entrata del reparto, in attesa di avere il permesso di visitare il parente ricoverato, che si ha la possibilità di ascoltare ogni sorta di lamentala, salvo nei casi in cui ci sia qualche parente lì fuori che, conoscendo direttamente un sanitario di reparto, ascoltando le critiche mosse da altre persone, difenda a spada tratta tutti i sanitari.

La storia raccontata in queste righe proviene dalla esperienza vissuta da un collega, padre del giovane traumatizzato ricoverato, e che non si è mai presentato come medico, “per non creare imbarazzo ai colleghi e poterli lasciare lavorare tranquillamente”.

Questa forse è stata la sua “colpa”; colpa, però, che ha fatto scoprire innumerevoli carenze soprattutto comportamentali in quella corsia d’ospedale e che oscurano anche il buon lavoro di chi agisce con professionalità, senso del dovere e con grande sacrificio, dedicandosi con premura alle cure dei malati. È stata nostra volontà riferirla, così come ci è stata raccontata, perché da subito ci è sembrata essere del tutto simile e sovrapponibile alla personale esperienza, esperienza fatta a seguito di un nostro intervento di urgenza per appendicite acuta in peritonite, in un altro ospedale romano, in cui venimmo portati qualche anno fa (molto prima del Covid-19). Anche in quella occasione pure noi non dicemmo a nessuno d’essere medico, non che l’averlo detto potesse significare qualcosa, ma probabilmente sarebbe servito ad evitare la brutta esperienza vissuta. Sì, perché anche a noi capitò di non essere informati sul da farsi, ma nemmeno ai nostri parenti.

Ricordiamo solo d’aver firmato un foglio –forse il consenso informato – la notte che entrammo in sala operatoria, ma colloqui con sanitari non ne abbiamo mai avuti, né abbiamo conosciuto mai il nostro “operatore”, non foss’altro per farsi vedere in faccia e chiederci la mattina dopo come stavamo; lo giuro solennemente! Solo ad un controllo post operatorio, dopo quindici giorni, facemmo presente al collega di ambulatorio che oltre ad essere medico avevamo lavorato in quella struttura per oltre quindici anni, prima di andare quale primario ORL nella ASL di Teramo, e che il primario chirurgo, che per altro mi conosceva, non si era fatto mai vedere, dimostrando anche – cosa grave! -che nemmeno si era interessato alla presenza dei pazienti nella sua corsia, controllando le cartelle cliniche,dal momento che nel controllarle avrebbe potuto vedere il mio nome con tutte le generalità e risalire a quel collega dell’otorino. È inutile descrivere l’imbarazzo dei sanitari presenti in ambulatorio al nostro racconto che, a qualcuno dei presenti, fece venire lampi di ricordi analoghi.

Mi auguro che queste due storie parallele possano lanciare un messaggio di riflessione soprattutto per coloro – di certo pochi – che appaiono distaccati dai soggetti malati, ai quali invece dovrebbero andare tutte le attenzioni possibili, non soltanto quelle specifiche della terapia, ma anche quelle di un afflato umano, che li aiutino proprio in quel momento di sofferenza.

Ciò, al di là di ogni paternalismo, contribuirebbe a rendere meno criticabile la nostra sanità da parte dell’utenza, la quale se ha qualcosa da recriminare – almeno da quanto si raccoglie stando a contatto con i pazienti nei nostri studi – è proprio l’assenza di colloquio con gli operatori sanitari, mancanza che potrebbe comprendere – ma mai giustificare! – le tante violenze che si verificano nei nosocomi contro il personale.

Del Dott. Gian Piero Sbaraglia
MEDICO CHIRURGO
Spec. In Otorinolaringoiatria
Primario Otorinolaringoiatra
C.T.U. del Tribunale Civ. e Pen. di Roma
Direttore Sanitario e Scientifico Centro di Formazione
Misericordia di Roma Centro – ROMA