Covid

Centro Studi ISTUD: la medicina narrativa per un eco sistema sanitario
di MARIA GIULIA MARINI

18 Settembre 2024

Intervista a Maria Giulia Marini, direttrice dell’area sanità e salute della fondazione ISTUD di Milano 

Cos’è la medicina narrativa, quali le sue radici e quali obiettivi si pone ISTUD?

ISTUD è un centro di studi e ricerche di formazione; l’area sanità quest’anno compie 20 anni, è nata nel 2002 e la sua missione è quella di promuovere l’efficacia delle cure e l’efficienza organizzativa. Questo non significa mettere al centro solo il paziente, ma desideriamo lavorare in modo sistemico, pensando ad una sorta di ecosistema sanitario, con l’obiettivo di contribuire a migliorare i servizi socio-sanitari, passando da un sistema ad un eco-sistema sostenibile. I protocolli imposti dall’alto non bastano perché ogni paziente ha la sua individualità, la sua soggettività ed ogni centro di cura è diverso dall’altro. Bisogna saper ascoltare e comprendere a fondo il contesto culturale dei pazienti e dei familiari, ma anche quello in cui lavorano i professionisti della sanità. Per noi non è soltanto un tema di “paziente al centro”, soprattutto da quando siamo stati investiti dalla pandemia degli ultimi due anni, che molto ha cambiato le esigenze generali.

Quali nuove esigenze ha determinato la pandemia?

Ci siamo trovati a vivere tante epoche in una sola epoca. Quando il bollettino dell’Oms dichiarò lo stato di pandemia, si parlò di qualcosa di “sconosciuto” e di “misterioso”. Eravamo tutti impreparati, nonostante alcuni infettivologi internazionali avevano previsto questa pandemia, ma noi non eravamo pronti. I professionisti sanitari già da prima avevano subìto molte pressioni: pensiamo alla regionalizzazione, che sicuramente ha dei vantaggi, ma che è stata anche usata per fare dei tagli a seconda delle regioni. Con il Covid-19 sono acuite le disuguaglianze ed anche gli strumenti per affrontare la pandemia non sono stati uguali per tutti. Circa 3.500 tra operatori sanitari, infermieri, medicini e portantini sono morti tra la prima e la seconda ondata. Ora la questione prioritaria è quella di ritrovare i medici, una vera e propria urgenza, ma anche imparare a delegare di più agli infermieri. Questo è un aspetto che sta emergendo soprattutto ora, ma in altri Paesi come Francia ed Inghilterra, c’era già un concetto di “infermiere del territorio”. Milioni di persone non hanno potuto raggiungere i centri di cura. Noi come ISTUD portiamo avanti un lavoro di ascolto profondo e cerchiamo di capire come si può migliorare. Penso, ad esempio, ai vaccini, che hanno provocato spaccature enorme tra chi era a favore e chi contro: nel 2020 ho visto una cooperazione straordinaria, ma nel 2021 la campagna di vaccinazione è stata gestita male dai media.

In che modo la medicina narrativa si è posta come strumento utile anche per affrontare un tema tanto delicato come quello dei vaccini anti Covid-19?

Abbiamo portato avanti uno studio composto da 276 narrazioni su persone che si sono vaccinate e non vaccinate. Chi lo ha fatto diceva di essere a favore soprattutto per “grandissimo senso civico”, dunque si pensava agli altri ancora prima di salvare sé stessi. Ma questi concetti andavano a scemare quando si è visto che l’efficacia dei vaccini non era così prolungata nel tempo. Proprio su questo c’è stato un difetto di comunicazione grande. L’altro errore è stato pensare che il vaccino fosse uno sterilizzatore, quando invece serviva a limitare i danni in caso di contagio, evitando che si sviluppasse la malattia in forma grave. Ma non che non ci si potesse contagiare. Proprio questo ha scatenato i “no vax”, è stato terreno fertile per queste persone. Su queste persone la medicina generale avrebbe potuto essere maggiormente proattiva. Magari chiamando chi era esitante, facendo un lavoro capillare sul territorio. Al contempo penso alle classi più giovani, che si sono vaccinate volentieri pur di riavere la loro libertà. Ora si parla molto di “sindemia”, sono raddoppiati i suicidi, i disturbi alimentari, si è visto il fallimento di due anni di DAD. Da un punto di vista psicologico proprio i ragazzi hanno pagato il prezzo più alto.

In questo contesto che tipo di supporto può dare la medicina narrativa?

Per noi è centrale il tema dell’umanizzazione delle cure, che promuoviamo anche attraverso webinar durante i quali i principali stakeholders si confrontano. Abbiamo raccolto 110 narrazioni sulla telemedicina e sono venute fuori luci ed ombre. Di positivo c’è che la telemedicina permette di raggiungere velocemente grandi numeri, abbattendo le distanze, e rappresenta certamente la strada del futuro. Ma si pone anche il dilemma della personalizzazione delle cure o il carico di lavoro sul “caregiver”; il familiare è spesso quello maggiormente sovraccaricato nell’assistenza al malato. Proprio i familiari sono soddisfatti delle tele visite poiché così possono entrare in contatto con i clinici di altre regioni, ma è un sistema – quello della digitalizzazione – su cui bisogna investire. Mancano medici, infermieri, ospedali all’altezza. Quando avremo anche questo, sarà importante digitalizzare. Ricordando però che non si può delocalizzare tutto.

Un lavoro, quello di ISTUD, che chiama inevitabilmente in causa il nesso tra cultura e salute. Quanto questi due ambiti sono imprescindibili l’uno dall’altro?

Le linee guida dell’Oms sulla ricerca narrativa, diffuse nel 2016, partivano da questo presupposto: circa il 50% delle persone non poteva curarsi adeguatamente perché i professionisti sanitari non capivano sufficientemente i contesti culturali di appartenenza. La cultura è un sistema di valori, di credenze. Un sistema collettivo ed anche il tema dell’alfabetizzazione, un sistema artistico. La parola “cultura” ingloba la nostra forma-pensiero: se non capiamo i desideri della persona che abbiamo di fronte, non riusciamo ad essere dei buoni curanti. Ogni cultura ha le sue espressioni artistiche e valoriali, anche se la globalizzazione sta spazzando via molti tratti distintivi che invece prima erano più marcati. Il radicamento alla propria cultura è molto importante ed in questo senso le arti sono di beneficio. Che cosa fa star bene le persone? La ricerca della verità innanzitutto. Abbiamo tantissime raccolte di narrazione di pazienti, che sottolineano proprio il loro senso di frustrazione, quando non vengono ascoltati o creduti. La ricerca della verità è fondamentale. Pensiamo poi alla musica, che è un linguaggio universale, nato ancora prima della parola stessa: ognuno ha un suo patrimonio sonoro, costituito da suoni, vibrazioni, brani, canzoni che ci evocano ricordi. Per “cultura” s’intende anche il linguaggio del corpo, come la danza, fondamentale ai fini dell’espressione individuale.  Penso infine ad altre espressioni artistiche come l’arte, che entra negli ospedali, generando benessere “passivo” quando la visione di un’opera d’arte provoca tranquillità, ma anche “attivo” perché l’arte ci permette di creare. C’è un enorme bisogno di recuperare tutti questi linguaggi perché le arti sono espressione di ricerca, di emozioni, di salute.