18 Settembre 2024
Di Dario Zazzaro, Dirigente medico I livello presso ASL RMD – azienda sanitaria locale RM3 Ospedale “G.B.Grassi” Università degli Studi “La Sapienza” di Roma
Era una primavera strana quella che del 2015, la mia prima volta in Afghanistan, partito come medico militare alla volta di Camp Arena a Herat. Tanta curiosità, tante aspettative, tanta voglia di fare. “Vado a servire la Patria” mi ripetevo e questo pensiero mi riempiva di orgoglio, mentre volavo nella pancia di un C130, dagli Emirati Arabi in direzione dell’Afghanistan, passando sopra al Pakistan. Certo il pensiero di cosa ci fosse sotto di noi, contrasti, guerriglia armata, terrorismo, talebani integralisti, avamposti dell’ISIS non mi sfiorava, anzi cercavo di ignorarlo, considerando che, nel momento in cui la pancia del C130 si fosse aperta sulla pista di Camp Arena, questa realtà mi avrebbe investito in pieno diventando la mia.
Assumevo a tutti gli effetti onori ed oneri della mia carica da ufficiale medico: non più medicina ambulatoriale e ospedaliera, ma medicina da combattimento. Negli ultimi 20 minuti che mi separavano durante l’atterraggio dalla pista, ripassavo a mente i protocolli della medicina di combattimento, che pone priorità diverse e scelte diverse, anche a prima vista crudeli. ll rumore assordante dei motori riempiva lo spazio angusto, tutti seduti su sedili improvvisati da bretelle volanti, gomito a gomito, tutti con scritto in volto un punto interrogativo: cosa ci sarà ad aspettarci una volta aperto il portellone?
Poi all’improvviso l’arresto del C130 sulla pista con un sobbalzo, i motori che perdono giri, uno spiraglio di luce comincia ad entrare nella pancia dell’aereo, mano a mano che il portellone si abbassa: “Tutti seduti”, il grido del personale di volo che ricorda di stare tutti fermi al proprio posto in attesa che il carico del C130 sia sbarcato per permetterci l’uscita… buffo, mi ritorna in mente la fiaba di Pinocchio, con la sola eccezione del fatto che noi non entravamo inghiottiti nella pancia della balena, ma ne uscivamo. Il caldo soffocante, come una seconda pelle sulla mia, mi investe in pieno, a me come agli altri, dandoci il primo caloroso benvenuto a Herat. L’aria è calda, polverosa, irrespirabile al primo impatto, l’odore del kerosene sulla pista acre, il rumore dei motori assordante con le voci che giungono a fatica mentre veniamo invitati a scendere in fila indiana dalla pancia del nostro amico: benvenuti amici, benvenuti soldati, benvenuti stranieri in una terra che non vi vuole, benvenuti a Herat, questa sarà la vostra casa ma anche il vostro rifugio: Camp Arena.
All’improvviso mi torna in mente un vecchio film: “Il Massacro di Fort Apache”, chissà perché! E la cosa mi strappa un sorriso appena accennato su un volto contratto, il cuore batte a mille nel petto, il fiato si fa corto: ora non si immagina più, il gioco è finito se mai gioco è stato, ora è tempo di vivere attivando tutti i sensi, qua la vita e la morte non hanno più molto significato, oggi sei qui e domani chissà… benvenuto straniero, benvenuto in Afghanistan!