Sanità e Territorio

REGIONI E SANITÁ
Un trattamento a macchia di leopardo?

26 Novembre 2020

Il tema, tornato di grande attualità con la seconda ondata di coronavirus, viene affrontato dal Dottor Fabrizio Pulvirenti, infettivologo catanese, autore di un pamphlet sul Ssn.

Partirei dalla sua pubblicazione, chiedendole: lo sviluppo dell’autonomia regionale, in tema di sanità, appare sempre più come la premessa di un allargamento della forbice delle disuguaglianze nella salute? Cosa ne pensa?

L’articolo 32 della nostra Costituzione sancisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo”; l’articolo 3 chiarisce che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Questi due articoli sono inseriti nella prima parte della Carta Costituzionale, quella che definisce i cosiddetti “principi”. La regionalizzazione del Servizio Sanitario ha, per effetto della differente distribuzione della ricchezza nel territorio, determinato la creazione di differenziazioni nel trattamento dei cittadini di uno stesso Stato. Inoltre, a causa dei tanti “piani di rientro” necessari per ripianare i debiti storici di alcune Regioni, è diminuita in tali Regioni l’offerta sanitaria con il risultato di avere determinato il cosiddetto “turismo sanitario”: chi non trova risposta alla propria richiesta di salute nella Regione di residenza è costretto a “migrare” nelle Regioni meglio attrezzate, ma la prestazione sanitaria è comunque pagata dalla Regione in cui il soggetto ammalato è residente. L’effetto di tale gioco è il continuo flusso di danaro pubblico verso le Regioni più ricche e meglio attrezzate a svantaggio di quelle più povere. Si consideri, infine, che il sistema di ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale è prevalentemente su base capitaria per cui le Regioni più popolose ricevono maggiori finanziamenti. Oggi, in aggiunta a tutto ciò, si vorrebbe attuare la ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale sulla base della spesa storica regionale: si capisce come quelle regioni che negli anni passati sono state costrette al risparmio si vedranno ulteriormente ridurre il finanziamento. È, pertanto, evidente che la regionalizzazione del Servizio Sanitario ha creato sacche intollerabili di disuguaglianza nell’offerta sanitaria del Paese e tale sperequazione potrebbe peggiorare se davvero si volesse ripartire il FSN sulla base della spesa storica.

Venendo all’attualità, non sarebbe stata più opportuna una gestione centralizzata ed unitaria della pandemia? Quanto la regionalizzazione del Ssn sta influendo sulla capacità di prendere delle decisioni comuni ed efficaci?

La pandemia da SARS-CoV2 sta facendo emergere le innumerevoli criticità dei Servizi Sanitari organizzati su base regionale. L’Italia (almeno sulla carta) non è uno Stato Federale, ma una Repubblica Parlamentare, suddivisa amministrativamente in 19 Regioni e due Province Autonome. L’avere nel 2001 devoluto alle Amministrazioni regionali alcuni compiti e alcune responsabilità dello Stato, prima fra tutte la tutela della salute pubblica, ha determinato profonde differenze. Naturalmente ogni territorio ha una propria storia e una propria organizzazione del tessuto sociale e questo dovrebbe essere una ricchezza di tutti. Oggi, invece, si assiste a decisioni asincrone dei Presidenti di Regione (chiamarli “Governatori” è un grossolano errore istituzionale!) prese spesso in difformità o in contrasto rispetto alla linea che dovrebbe essere nazionale, complice anche – se non soprattutto – il diverso orientamento politico dei Presidenti rispetto al Governo. Il DPCM ultimo, quello del 4 novembre, ha iniziato a muoversi nella giusta direzione: sappiamo benissimo che la diffusione del contagio in alcune aree è notevolmente superiore rispetto a altre; sottoporre alle stesse misure tutte i territori allo stesso modo non tutela meglio la salute pubblica e aggrava le condizioni economiche delle Regioni con tassi di contagiosità inferiore.

Secondo lei la pandemia ha ulteriormente evidenziato i problemi creati da un Ssn ampiamente regionalizzato e frammentato?

Indubbiamente! Sempre a causa del sistema di ripartizione del Fondo Sanitario Nazionale e dei numerosi piani di rientro, alcune regioni sono cresciute meno rispetto a altre per cui è profondamente differente la risposta che i territori possono dare alla richiesta di salute dei propri cittadini. Il problema della pandemia da coronavirus SARS-CoV2 – questo, ormai, è un dato acclarato – non è la gravità della malattia: il tasso di letalità calcolato da autorevoli studi che hanno analizzato ampie fette di popolazione con la giusta rappresentanza di sesso, età, condizione sociale, patologie pregresse, ecc., è oggi valutato tra lo 0,3 e lo 0,6 per cento; ciò che realmente impatta nel Servizio Sanitario è la contemporaneità dei soggetti che si ammalano e che possono intasare le strutture ospedaliere. A questo deve aggiungersi, per correttezza di esposizione, la cattiva informazione che molto spesso viene data dai talk-show nei quali non sempre sono chiamati dei “veri” esperti a esporre con rigore scientifico gli aspetti dell’infezione. Abbiamo assistito, negli ultimi mesi, a una irragionevole confusione delle figure professionali: virologi, infettivologi e epidemiologi non sono la stessa cosa, giacché ognuna di tali figure affronta il problema per quanto di propria competenza. Inoltre tali donne e tali uomini di scienza sono spesso chiamati a confrontarsi con personalità dello spettacolo, con giornalisti o con politici la cui competenza in questo ambito è molto superficiale. Il risultato è l’enorme confusione ingenerata negli astanti che inevitabilmente provoca paure irrazionali. E la paura si riverbera nella corsa ai Pronto Soccorso anche quando non ce ne sarebbe bisogno.

Quanto i tagli alla sanità pubblica in favore di quella privata hanno inciso sulla risposta che il nostro paese può dare ad un’emergenza sanitaria come quella che stiamo vivendo?

Non sono idealmente contrario alla iniziativa privata, sia chiaro. Ritengo, però, che la Sanità Privata in uno Stato che, per dettato costituzionale, tutela la Salute Pubblica, debba essere di tipo “complementare” e non “concorrenziale”. Mi spiego meglio. La sanità privata dovrebbe integrare alcuni servizi al cittadino per i quali sono previste particolari competenze o specializzazioni e che richiederebbero per il Servizio Pubblico irragionevoli investimenti; in tali casi è utile al cittadino-paziente che il servizio pubblico acquisti dalla sanità privata l’intero pacchetto di un particolare servizio. Se, tuttavia, la sanità privata si pone in competizione con quella pubblica, derubricando la salute dei cittadini a una mera questione di profitto, il meccanismo s’inceppa. Inoltre la nostra sanità privata è “privata” fino a un certo punto, considerato che pressoché tutti gli imprenditori che hanno scelto di investire in sanità entrano in convenzione con il servizio pubblico per cui, alla resa dei conti, è sempre dallo Stato che ricevono il finanziamento.

A suo avviso c’è stata anche una scarsa attività di educazione sanitaria e prevenzione da parte delle Regioni? Ad esempio guardando i numeri degli anni passati sui vaccini antinfluenzali…   

La questione dei vaccini ha radici relativamente recenti e squisitamente politiche. Non si possono dimenticare alcuni spettacoli comici teatrali nei quali i vaccini sono stati definiti “una grande truffa” e un “regalo alle multinazionali”. Il sentimento collettivo verso i vaccini è influenzato da molteplici fattori condizionanti che hanno il doppio peso, politico e sanitario. Non tutte le Regioni hanno affrontato la vicenda con l’adeguato rigore scientifico; e lo vediamo nei report dell’Istituto Superiore di Sanità delle rappresentazioni della copertura vaccinale nelle diverse Regioni. La prima Regione italiana a muoversi autonomamente in quest’ambito, sospendendo l’obbligo vaccinale per l’età evolutiva, è stata il Veneto con una propria legge regionale (del 27 marzo 2007), ovviamente grazie alla devoluzione dei compiti di tutela della salute pubblica dallo Stato, dal Ministero, alle Regioni.