28 Aprile 2025
di Andrea Castiello d’Antonio, Psicologo clinico, Psicoterapeuta Psicologo del Lavoro, Consulente manageriale
Lavorare équipe in campo medico è, ormai, una prassi consolidata ma – esattamente come “comunicare”, nel senso di saper comunicare efficacemente – non è detto che tutti sappiano farlo, né che tutti abbiano le stesse “doti naturali” di base, da poter successivamente affinare e migliorare, se necessario.
Sicuramente, un efficace ed efficiente lavoro in équipe significa poter assicurare al paziente un intervento tempestivo e di qualità e, come ben sappiamo, riuscire a fare le cose “presto e bene” non è affatto facile, tutt’altro. In genere, si tende a privilegiare l’uno o l’altro aspetto, in relazione alla situazione da fronteggiare.
Il processo di cura del-dei paziente-i richiede, dunque, un armonioso lavoro in team, anche perché – al di là delle specializzazioni di ciascun operatore sanitario – è l’essere umano paziente che dovrebbe essere preso in carico: cioè, la “persona”, e non la malattia, l’infortunio, la patologia, l’emergenza. Ciò non è affatto semplice, stante lo sviluppo delle conoscenze e delle tecnologie e la conseguente iperspecializzazione, l’organizzazione dello specifico presidio sanitario, e la complessità di numerosi quadri patologici che, molto spesso, includono problematiche fisiche, psichiche e psicosomatiche.
L’équipe sanitaria, a sua volta composta da diverse figure professionali, emerge così come lo spazio-tempo in cui diverse competenze trovano posto, si incontrano ed agiscono, tutte finalizzate a offrire il miglior intervento possibile al soggetto preso in carico.
In questo quadro, ci si può porre una domanda di base: i professionisti che compongono le équipe sono capaci di lavorare produttivamente in team?
Possiedono le giuste competenze non tecniche, bensì personali?
Hanno seguito dei percorsi formativi per sviluppare, o migliorare, il loro approccio al lavoro in squadra?
L’équipe sanitaria è un gruppo complesso che dovrebbe essere attentamente organizzato ma anche “costruito”, per così dire, dato che può essere formato da tante figure: medici, infermieri, fisioterapisti, psicologi, assistenti sociali, farmacisti, tecnici sanitari e altri ancora, collocati in ospedali, cliniche, ambulatori, e vari presidi sociosanitari sul territorio.
Si sta, dunque, parlando di gruppi multiprofessionali e/o interprofessionali, in cui ogni membro è responsabile per sé stesso ma, al contempo, lo è per l’intero gruppo.
Ma come si forma un efficace gruppo di lavoro finalizzato a un obiettivo?
Esiste un modello operativo, ideato dallo psicologo nordamericano Bruce Wayne Tuckman (24 novembre 1938 – 13 marzo 2016), centrato sulle fasi di nascita e sviluppo del gruppo operativo, applicabile in diversi contesti, dalla conduzione di progetti complessi alla costruzione di team di ricerca, fino al campo sociosanitario.
Un modello sviluppato negli Anni Sessanta, in modo pragmatico, cioè in base all’analisi di ciò che avveniva nei gruppi, e con lo scopo innanzi tutto di osservare e capire le dinamiche, e poi di delineare un modello, appunto, che potesse rappresentarle.
Applicando, in ipotesi, questo modello a una équipe sanitaria in fase di costruzione, si possono individuare le seguenti cinque fasi di vita del gruppo che rappresentano, in sostanza, il ciclo di vita del gruppo.
La prima fase è la fase di formazione del gruppo – Forming – in cui le persone si incontrano, iniziano a osservarsi e parlarsi, a conoscersi, con maggiore o minore curiosità e disponibilità, ognuno naturalmente portando con sé speranze e diffidenze, aspettative positive e timori.
Le emozioni che circolano sono in genere contraddistinte da uno stato di cautela e incertezza, eventualmente da qualche tensione, ma anche da entusiasmo e volontà di mettersi all’opera. Insomma, si impara a gestire le relazioni interpersonali, si “prendono le misure”, e scattano subito le sensazioni di antipatia-simpatia, e così via.
Si tratta di una prima fase molto delicata perché impronta l’andamento del lavoro di gruppo e, come ben sappiamo, le prime impressioni tendono a permanere nella mente dei membri del team.
Nel momento in cui ci si comincia a confrontare realmente sui compiti, metodi, approcci, strategie di intervento, e sulle cose-da-fare si entra nella fase detta di Storming.
Il binomio cooperazione-competizione fa la sua comparsa, mentre si fa più evidente la possibilità che ognuno giudichi l’altro, commentandone le prestazioni o gli approcci, e discutendo sul come-fare.
Si entra, così, in un contesto in cui possono svilupparsi confronti o discussioni anche parecchio decise che possono portare ad alleanze, schieramenti e determinare un clima di gruppo più o meno costruttivo. In questa fase coloro che devono coordinare il team iniziano a dover gestire molto attivamente le situazioni, ad esempio intervenendo sui conflitti interpersonali.
Con lo sviluppo del senso di responsabilità, in quanto partecipanti attivi del team, si entra nella terza fase, quella di Norming, in cui si sviluppa un aspetto fondamentale del lavoro in équipe: la coesione di gruppo. Anche qui la leadership del gruppo è molto importante giacché il coordinatore ha la possibilità di aiutare le persone a sviluppare fiducia: fiducia reciproca, cioè la base del gruppo. Il “collante” della vita di gruppo.
Un aspetto organizzativo positivo che si visualizza in questa terza fase è rappresentato dall’emergere dello scopo comune per il quale ognuno si assume una specifica responsabilità – da notare che esistono delle metodologie di gestione delle risorse umane che sono basate proprio sullo sviluppo della fiducia, e sulla capacità dei responsabili e dei collaboratori nello stabilire l’obiettivo comune.
Ecco nascere l’esigenza di fare “team building” affinché gli aspetti costruttivi raggiunti non vengano meno, e affinché si possa, dunque, andare verso la quarta fase, la fase di Performing.
Nei casi migliori, in questa fase emerge la condivisione, il senso di appartenenza e la capacità non solo di “fare” (che è essenziale, naturalmente!) ma anche di innovare e di proporre con un sano spirito critico nuove idee.
Nel momento in cui l’équipe è sufficientemente sicura di sé stessa ci si può dedicare senza altri pensieri all’operatività e alla risoluzione di problemi, ottimizzando il tempo e le risorse e puntando a un risultato di eccellenza. Ma, anche in questa fase, tra le mille insidie che possono far deragliare il lavoro in squadra, ri-emerge la possibilità dello sviluppo di conflitti interpersonali.
Nel campo della psicologia sociale, del management e della leadership esiste una letteratura sconfinata sul tema del conflitto interpersonale considerato nei tre livelli di analisi: il gruppo, le relazioni tra due o più team (inter-gruppo), e l’organizzazione nel suo complesso.
Com’è comprensibile, nel corso del tempo sono stati proposti numerosi modelli e micro-teorie, la maggior parte dei quali basati su ricerche sperimentali e sperimentazioni-osservazioni sul campo effettuati in diversi contesti: dalle organizzazioni socio-sanitarie alle imprese produttive che vivono nella logica del mercato, dalle pubbliche amministrazioni alle istituzioni educative.
I modelli “bidimensionali” del conflitto, centrati sulle dimensioni cooperazione-competizione, sono stati ben presto arricchiti con lo studio di altre strategie di approccio quali il problem solving, il compromesso, l’appianamento, la concessione, la costrizione, la contesa, l’inazione e il ritiro.
Un modello oggi spesso applicato nell’ambito delle équipe multiprofessionali prevede l’analisi delle situazioni conflittuali lungo i due assi dell’interesse per se stessi e dell’interesse per gli altri. Incrociando tali prospettive si hanno quattro modalità di affrontare il conflitto: il dominio, l’evitamento, la sottomissione e l’integrazione. Quest’ultima è considerata la modalità a più elevato “valore aggiunto” mentre una quinta modalità, denominata compromesso, sta ad indicare la ricerca di una soluzione intermedia sulla base della rinuncia reciproca a porzioni di interessi personali.
Uno sviluppo interessante delle teorie del conflitto organizzativo è nell’ottica situazionale che prende spunto dalle “teorie della contingenza” e – proprio come il modello della leadership situazionale – si propone di individuare le migliori strategie di gestione del conflitto sulla base dell’analisi specifica degli elementi in gioco.
Il conflitto nei gruppi di lavoro orientati a conseguire un obiettivo è dunque stato variamente declinato e, con le diverse declinazioni, sono emerse differenti tassonomie.
Una visione di insieme distingue i conflitti sulla base della natura transitoria, contingente o permanente nella situazione di confronto-scontro, tenendo presente il numero e la qualifica organizzativa dei soggetti coinvolti, e l’oggetto del conflitto.
Sono qui da prendere in esame variabili come i valori, i confini di ruolo, gli obiettivi e i compiti assegnati, gli interessi, le aspettative di sviluppo professionale o di carriera, le motivazioni “implicite”, ma anche le variabili organizzative, come la pressione lavorativa, i carichi di lavoro e il distress che ne deriva.
Le modalità con le quali si manifesta il conflitto possono poi essere poste su una scala che va dalle modalità nascoste ed implicite a vere e proprie manifestazioni di aggressione reattiva.
Infine, le cause del conflitto possono individuarsi in caratteristiche organizzative – tra queste vi sono le strategie di informazione e comunicazione, il clima interno e gli stili di leadership – o in determinanti di genere individuale: ad esempio, l’interpretazione soggettiva della vita di lavoro come di una costante “battaglia” per emergere e progredire.
A tutto ciò si applicano le modalità specifiche di ciascun attore organizzativo di vivere, gestire ed eventualmente ridurre o risolvere il conflitto. È in tale ottica che entra in gioco il tema delle capacità gestionali e anche delle abilità “negoziali”, sorrette da modalità evolute ed evolutive, eticamente percorribili e culturalmente condivisibili.
Si può dunque concludere che (1) saper lavorare in équipe rappresenta una abilità da non dare per scontata e, anzi, da coltivare e sviluppare in ciascun membro della squadra, e che (2) contrasti, divergenze e conflitti devono essere affrontati e gestiti tempestivamente ma, anche in tal caso, si deve essere “attrezzati” adeguatamente allo scopo per non peggiorare situazioni già complicate.
