27 Gennaio 2025
Di Andrea Castiello d’Antonio
Fino a diversi decenni fa era scontato vedere nelle realtà di lavoro la presenza dei classici “adulti sani e efficienti”, persone mature, psicologicamente equilibrate e dedite al lavoro, prospettando l’idea fantasiosa e irreale di una “organizzazione-orologio” fondamentalmente razionale. Ma già dall’individuazione di alcuni stili di leadership disfunzionali delineati negli Anni Quaranta del Novecento, e poi dei comportamenti cosiddetti “controproduttivi” in tempi più recenti, l’idea che i diversi mondi del lavoro – aziende private, pubbliche amministrazioni, istituzioni – siano popolate soltanto da soggetti “mentalmente sani” si è andata sbriciolando.
Guardare al mondo del lavoro come a un sistema socio-dinamico, aperto, interattivo, complesso e sempre in cambiamento significa non limitarsi a vedere una realtà esclusivamente razionale e popolata da soggetti “adulti”, prendendo in considerazione la possibilità che le organizzazioni possano essere malate, possano generare o assorbire psico e socio-patologie e, così facendo, indurre sofferenze e difficoltà nei loro membri, ad ogni livello delle scale gerarchiche: le “patologie organizzative” sono state studiate ed è tempo di inserire anche questo parametro negli studi sul mobbing e sulle diverse forme che l’aggressività distruttiva si manifesta tra capi e colleghi.
Come ha scritto Sigmund Freud in “Il disagio della civiltà” (1929) “nessun’altra tecnica di condotta della vita lega il singolo così strettamente alla realtà come il concentrarsi sul lavoro, poiché questo lo inserisce sicuramente almeno in una parte della realtà, nella comunità umana. La possibilità di spostare una forte quantità di componenti libidiche, narcisistiche, aggressive e perfino erotiche sul lavoro professionale e sulle relazioni umane che ne conseguono conferisce al lavoro un valore in nulla inferiore alla sua indispensabilità per il mantenimento e la giustificazione dell’esistenza del singolo nella società” (Freud S., tr. it.: OSF, vol. X. Boringhieri, Torino, 1978, p. 572). Ciò significa che in tal modo la persona consolida il suo “senso della realtà”, rinuncia all’anarchia della ricerca immediata del piacere, si rende disponibile, ed anzi si inserisce attivamente nel processo di socializzazione, di adattamento attivo e di “produzione di valore”, interagendo con gli altri al fine di conseguire lo scopo istituzionale. Ma “l’attività professionale procura una soddisfazione particolare se è un’attività liberamente scelta, tale cioè da rendere utilizzabili, per mezzo della sublimazione, inclinazioni preesistenti, moti pulsionali persistenti, cui già per costituzione l’individuo è vigorosamente predisposto” (Freud, 1929, p. 572): ecco, quindi, emergere il tema spinosissimo della motivazione, collegato alla possibilità di scegliere il proprio lavoro, e il proprio ambiente di lavoro, compreso l’ambiente sociale, in linea con le proprie personali qualità ed inclinazioni latenti. Allorché ciò avviene, attraverso il meccanismo psicologico della sublimazione, si attua una trasformazione dinamica e congruente tra moti pulsionali ed attività razionalmente finalizzate, cosa che dona al lavoro un significato ed un valore peculiari. Ma quando ciò non accade si possono scatenare nell’individuo reazioni e cariche di aggressività distruttiva deviate verso le persone che sono prossime nell’ambiente socioprofessionale condiviso. Ancor più grave se tali dinamiche si innescano in persone definibili “adultoidi”, cioè soggetti apparentemente normali e ben adattati che, nel profondo, conservano deficit e distorsioni importanti del proprio mondo mentale.
Verso la fine degli anni Novanta ho pubblicato un libro dal titolo “Psicopatologia del management. La valutazione psicologica della personalità nei ruoli di responsabilità organizzativa” (Franco Angeli, Milano, 2001). È in tale prospettiva che si situa il libro appena pubblicato “L’aggressività distruttiva nel mondo del lavoro. Il mobbing e le altre forme di violenza organizzativa” (Hogrefe, Firenze, 2024). Un testo il cui titolo ha forse bisogno di qualche rapida precisazione. Il primo elemento che emerge è che ci si occupa, qui, delle forme distorte di aggressività, cioè dell’aggressività “distruttiva” che è del tutto diversa dalle situazioni in cui un essere umano manifesta una condotta aggressiva per auto-difesa. Il secondo elemento punta il dito sul fatto che nel mondo del lavoro vi sono tante e diverse forme di “violenza psicologica” (o “violenza morale”, come un tempo si diceva): non soltanto il mobbing, né solo altre configurazioni ben conosciute come lo stalking o le molestie a sfondo sessuale (harassment).
Quindi, si tratta di inquadrare il mobbing e le altre forme di violenza psicologica sul luogo di lavoro nella dinamica dell’aggressività, del comportamento aggressivo, vale a dire all’interno del mondo emozionale-interpersonale che si sviluppa in ogni ambito organizzativo, anche se in forme implicite, non immediatamente visibili, coperte e talvolta inconsapevoli. Sappiamo che le forme nefaste di aggressività, almeno in certi ambienti organizzativi, si ammantano di comportamenti in apparenza impeccabili, formalmente inattaccabili, coperte da sorrisi e falsificazioni, fino al punto di mettere in ulteriore difficoltà la vittima nel momento in cui essa si ribella.
Nel quadro del mobbing e dei “deragliamenti” che avvengono nel mondo organizzativo, dovrebbe essere preso in seria considerazione il tema della psicopatologia della leadership e del management, e della “leadership tossica”. In effetti, nel momento in cui determinate disfunzioni soggettive – ipoteticamente, e fino ad un certo punto, tollerabili in soggetti esecutivi di basso livello gerarchico – sono incarnate da persone che detengono ruoli di potere e autorità istituzionale, gli effetti deflagranti che ne derivano assumono una forma inquietante.
In questo contesto il mobbing, il bossing e altre dimensioni di psicopatologia organizzativa del management e della leadership, compresi i “comportamenti controproduttivi” di capi e collaboratori, devono essere esaminati dal punto di vista psicologico clinico e dinamico (e non solo dal punto di vista della psicologia sociale, del lavoro, e delle teorie dell’organizzazione), ponendo insieme la psicologia dei gruppi con la psicologia della personalità, e prendendo in esame le maggiori distorsioni della leadership non meno delle disfunzioni della followership, in specie i sopracitati “counterproductive work behaviours”. Ma il mobbing e le numerose altre forme di “violenza morale” nel mondo del lavoro si collocano ad un crocevia di tante e diverse discipline. Infatti, queste manifestazioni di incontrollata aggressività agita a danno di una o più persone possono essere considerate dal punto di vista della sociologia delle organizzazioni, della giurisprudenza, della medicina del lavoro, dell’economia e, naturalmente, della psicologia
In questo orizzonte si tratta di affrontare i “fenomeni di violenza interpersonale” a loro volta specificabili esemplificativamente con l’isolamento sociale, gli attacchi, le persecuzioni e le aggressioni di tipo verbale e sociale (ma anche fisico) comprese le calunnie e le minacce (quindi aggressioni “dirette ed esplicite”), nonché le “voci di corridoio” – i “rumors” – artatamente poste in essere per danneggiare la reputazione e l’immagine di una persona (aggressioni “indirette e implicite”). Vi è poi l’aspetto fa riferimento ad azioni realizzate dall’organizzazione e/o dal suo management verso un singolo individuo – o verso un gruppo – nelle quali è possibile riscontrare una volontà chiara di danneggiamento, del tutto priva di altri intendimenti di natura intersoggettiva. In tali casi rientrano: i trasferimenti ingiustificati e punitivi, eventualmente ripetuti; l’isolamento per mezzo della creazione di un vuoto comunicativo ed informativo circa il lavoro da svolgere; l’assegnazione arbitraria di attività evidentemente inferiori alle capacità e alle qualifiche dell’individuo; la totale non assegnazione di compiti e mansioni da svolgere.
È dunque illusorio ritenere che le piramidi organizzative siano abitate sempre e solo da soggetti sani, mentalmente equilibrati e dediti esclusivamente al raggiungimento dello “scopo dichiarato”, o “scopo primario” dell’organizzazione (cioè la ragione – la “missione” – per la quale l’organizzazione stessa esiste e deve funzionare): la “sanità relativa” della personalità organizzativa costituisce un utile terreno di indagine e di intervento in ogni ambiente di lavoro.
Sull’autore
Andrea Castiello D’Antonio si occupa di psicologia da oltre 50 anni.
Dal 1978 lavora nell’ambito della psicologia clinica, psicoterapia, psicologia del lavoro e delle organizzazioni, portando avanti in parallelo queste attività sia a livello professionale, sia nella ricerca e nello studio. Dal 1990, anno in cui in Italia è stata riconosciuta per legge la professione di psicologo ed è stato istituito l’Albo nazionale degli Psicologi, è iscritto all’Ordine degli Psicologi del Lazio ed è abilitato all’esercizio della psicoterapia. Oltre all’attività professionale ha sempre svolto ricerche e studi, pubblicando fino ad oggi oltre 200 articoli in diversi settori della psicologia applicata e 26 libri. Per molti anni è stato Professore Straordinario di psicologia clinica e del lavoro presso l’Università Europea di Roma e ha ricoperto diversi incarichi scientifico-professionali in ambito nazionale e internazionale, essendo membro delle maggiori associazioni internazionali, come l’International Association of Applied Psychology, (USA), American Psychological Association (USA), la British Psychological Society (UK), l’International Society for the Psychoanalytic Study of Organizations (USA), la Society of Industrial and Organizational Psychology (USA), la Society for Personality Assessment (USA), l’International Rorschach Society (USA), l’Association of Aviation Psychologists (USA), l’International Society for Coaching Psychology (UK), e lo Special Group in Coaching Psychology /British Psychological Society (UK).