18 Settembre 2024
La definizione di “perdente” e “vincente” può essere soggettiva e dipendere dalle prospettive e dai valori individuali. Tuttavia, in generale, oggi si definisce un “perdente” non come qualcuno che ha “perso qualcosa”, ma, in maniera giudicante, che fallisce nel raggiungere i suoi obiettivi o che non ha successo nella vita. D’altra parte, un “vincente” è definito come qualcuno che raggiunge i suoi obiettivi e ha successo.
Per cominciare è importante sottolineare che il concetto di “perdente” e “vincente” è limitante e può portare a giudizi eccessivi e stereotipi. In realtà, il successo e il fallimento sono parte della vita e possono dipendere da molteplici fattori, come le opportunità, la fortuna, la cultura e le risorse disponibili. I greci questo lo sapevano benissimo e non si sarebbero mai sognati di definire, ad esempio Amleto, un perdente.
Inoltre, è importante ricordare che la definizione di successo può variare da persona a persona. Ciò che è considerato successo per una persona potrebbe non essere lo stesso per un’altra. Pertanto, è importante evitare di etichettare e giudicare le persone come “perdenti” o “vincenti” e piuttosto concentrarsi sulla loro unicità e sul loro percorso individuale. Queste idee hanno (a mio modesto avviso) possibili ripercussioni sull’autostima percepita, sulla patogenesi di alcune forme di depressione, sui livelli di energia e in generale su molti insospettabili aspetti della salute mentale e sulla qualità della vita di ciascuno di noi.
Ad onor del vero queste riflessioni sono partite dall’illuminante TED TALK del filosofo Alain de Botton, di cui riassumerò di seguito alcune idee. Nel medioevo, in Inghilterra, quando s’incontrava una persona molto povera, la si definiva come “sfortunata”. Letteramente, qualcuno che non era stato baciato dalla fortuna, uno sfortunato (unfortunate). Oggi, specialmente nei paesi a cultura anglofone, quando s’incontra qualcuno “al fondo della società”, lo si descrive come “perdente” (looser). C’è una grossa differenza tra uno sfortunato e un perdente. E questo mostra 400 anni di evoluzione nella società, e la nostra idea collettiva di “chi sia responsabile per le nostre vite”. Non sono più gli dei, siamo noi. Siamo noi alla guida. Nei casi peggiori questo sentire, come spiegava l’analisi del noto sociologo Emil Durkheim, porta ad aumentati tassi di suicidio. Avvengono più suicidi nei paesi individualistici sviluppati che in ogni altra parte del mondo. E una delle ragioni è che le persone prendono quello che succede loro in modo estremamente personale. E’ facile vedere la dicotomia che esiste al giorno d’oggi, in una specie di ottica manichea, tra la percezione di successo e fallimento. Pensate ai giornali e agli articoli che vediamo di norma in prima pagina: il prodotto X dell’azienda Y è stato un successo commerciale; il tal politico è stato arrestato, la sua vita desta scandalo; la tal squadra ha vinto; l’altra è stata eliminata. Questi valori che ci vengono trasmessi ogni giorno inconsciamente iniziano a far parte di noi e del modo in cui vediamo le cose. Giudichiamo le persone in base al loro reddito, in base al successo lavorativo che dimostrano. E giudichiamo noi stessi (forse a parte chi ha fatto un percorso specifico di analisi) in base agli stessi parametri. Chi ha successo è una divinità, chi fallisce non è degno che di ricevere insulti. Il criticismo (il costante giudicare/giudicarsi, tanto sottolineato dall’approccio mindfulness) che sviluppiamo, e che crea ansia e che affligge il tono dell’umore, dipende da vari aspetti. De Botton sostiene che uno dei principali sia lo snobismo, inteso come: chiunque prenda la sua rappresentazione di una piccola parte di te e la usa per formarsi una visione completa di chi sei. Secondo De Botton quello che cerchiamo nel nostro tipo di società è il riconoscimento (la “fama”): ovvero l’essere importanti per qualcuno, l’essere benvoluti e cercati. E spesso questo tipo di ricompensa è legata allo status sociale che ricopriamo, a quanto possediamo, a cosa possediamo, a che lavoro svolgiamo. Non ricerchiamo gli oggetti, ma il loro possesso come fonte di riconoscimento. E da questo nasce l’invidia. Parlare di invidia è un grande tabù, ma se c’è un sentimento dilagante nella società moderna, quella è l’invidia. Ed è legata allo spirito di uguaglianza.
Mi spiego. Penso che sarebbe molto strano per i presenti, o per chi ci guarda, essere invidiosi del Re d’Inghilterra. Anche se è molto più ricco di ciascuno di noi ed ha una casa molto grande. La ragione per cui non l’invidiamo è perché è troppo strano. È semplicemente troppo diverso. Tendiamo a non relazionarci con chi è tanto “lontano” da noi. Quando non ci si può realmente relazionare con qualcuno, non lo invidi. Inoltre oggi, è probabilmente tanto improbabile diventare ricchi e famosi come Bill Gates, quanto era improbabile nel 17esimo secolo accedere ai ranghi dell’aristocrazia francese. Ma il punto è che non ci sembra improbabile. Ci viene fatto credere, dai giornali e altri media, che se hai energia, qualche bella idea sulla tecnologia e un garage, puoi creare qualcosa di grandioso. Una società meritocratica è una società in cui se hai talento, energia, capacità arrivi in cima. Niente ti dovrebbe trattenere. È una bellissima idea. Il problema è: se credi veramente in una società dove quelli che meritano di arrivare in cima ci arrivano, implicitamente e in un modo molto più spiacevole, credi in una società in cui quelli che meritano di toccare il fondo toccano il fondo e lì restano. In altre parole, la tua posizione nella vita non sembra più accidentale, ma meritata e guadagnata. E questo rende i fallimenti molto più devastanti (complice il nostro “tribunale interiore”, come lo avrebbe chiamato Eric Berne). Quando riflettiamo sul fallire nella vita, quando pensiamo al fallimento, una delle ragioni per cui temiamo di fallire non è soltanto la perdita di ricchezza o di status. Ciò che temiamo è il giudizio e la derisione degli altri. Che esiste. Inoltre, cosa molto importante, spesso esaminando a fondo le nostre idee di successo finiamo per scoprire di non essere certi che siano nostre, che siamo i veri autori delle nostre ambizioni. È già abbastanza brutto non ottenere ciò che vuoi. Ma è ancora peggio avere un’idea su cosa desideri e scoprire alla fine del percorso che, in realtà, non è ciò che hai sempre voluto, ma che forse ti è stata trasmessa dalla cultura, dalla famiglia etc. Sono un clinico e ho lavorato per anni in SPDC (Servizio per la diagnosi e cura dei disturbi mentali, un reparto di quindici posti letto in media che si trova praticamente in ogni Ospedale Generale). Credo di aver trattato centinaia di persone depresse. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la depressione è la prima causa di disfunzionalità nei soggetti tra i 14 e i 44 anni di età. Sembra colpisca nel mondo circa 350 milioni di persone, deteriorandone (tra le altre cose) la capacità di lavoro e di relazione. Nella sua forma più grave può portare al suicidio e sarebbe responsabile di quasi un milione morti ogni anno. Come riporta inoltre recentissimamente la autorevole rivista scientifica The Lancet (2023), si stima che globalmente 1 persona su 8 conviva con un problema di salute mentale e che la pandemia abbia contribuito ad aumentare del 25% i casi di ansia e depressione in tutto il mondo. In Italia, soprattutto, la situazione è drammatica. Sono 3,5 milioni le persone che soffrono di depressione ma, secondo l’ISTAT, meno della metà riceve una diagnosi e solo 1 paziente su 3 riceve le cure adeguate. Quello della depressione è un tema che negli ultimi anni è diventato assai popolare, ma sul quale – a mio avviso – esistono ancora molta confusione e diversi equivoci; esso è inoltre legato ai temi della “perdita” e dell’insuccesso.
L’esperienza suggerisce che, anche se non esistono affatto ipersoluzioni, un buon punto di partenza dovrebbe sempre essere la corretta definizione del problema (cosa che non sempre accade). Secondo me spesso si scambia depressione per quello che non lo è, e ci cascano anche i colleghi più bravi. Il primo equivoco consiste nel confondere la condizione clinica chiamata depressione con la normale tristezza o con la demoralizzazione (per un “insuccesso”). A mio avviso, risultano ancora validissime le parole di Silvano Arieti, che nel 1978 diceva della tristezza e della demoralizzazione: “sono il comune dolore che coglie l’essere umano quando un avvenimento avverso colpisce la sua esistenza precaria, o quando la discrepanza tra la vita com’è e come potrebbe essere diventata il centro della sua fervida riflessione”. Un “perdente” può essere triste o demoralizzato, e questo è relativamente normale e di solito è uno stato transitorio. Proprio come un “vincente” si sente felice e appagato (idem, uno stato di passaggio). In questi casi la malattia mentale non c’entra nulla ed è importante sapere che nessun farmaco antidepressivo funzionerà. Invece “è meno comune, ma abbastanza frequente da costituire uno dei principali problemi psichiatrici, il dolore che non si attenua col passare del tempo, che sembra esagerato in rapporto al presunto evento precipitante, inappropriato, o non collegato ad alcuna causa evidente”. Questa è la depressione vera e propria, che a sua volta può essere graduata su un continuum di severità (di nuovo, compito che spetterebbe ad un professionista della salute mentale). Quando i sintomi sono tali da compromettere l’adattamento sociale, si parlerà di disturbo depressivo maggiore, in modo da distinguerlo da depressioni minori che non hanno gravi conseguenze e spesso sono normali reazioni ad eventi della vita (nemmeno per quelli i farmaci funzionano). Con il termine “depressione atipica” s’intende, invece, un particolare sottotipo di disturbo dell’umore, caratterizzato essenzialmente da depressione con umore reattivo: in pratica l’umore «migliora se capita qualcosa di buono (un successo, ad esempio), peggiora se capita qualcosa di brutto (una notizia, un insuccesso etc.)»; questo non succede nelle altre forme di depressione dove l’umore è «stabilmente giù» e non reagisce agli stimoli e agli eventi stressanti esterni. Come si può intuire da quanto detto ci sono delle sostanziali differenze tra i vari stati d’animo, che andrebbero valutate approfonditamente, anche per decidere come intervenire. Se non comprendiamo con cosa abbiamo a che fare, facciamo generiche diagnosi di depressione o diamo un farmaco antidepressivo ad una persona che è “semplicemente” triste o demoralizzata, possiamo mettere la persona sulla strada sbagliata, e questo purtroppo accade spesso. Come mai la distinzione tra depressione e demoralizzazione non viene chiarita quando si parla alla gente? A volte, per ignoranza. Altre volte per malafede, perché indubbiamente quanto più si rinforza il messaggio che la depressione è una condizione a cui tutti prima o poi andiamo incontro, tanto più ampia è l’audience di cui si richiama l’interesse. Le conseguenze di questa confusione possono essere molto serie. Accade abbastanza frequentemente, ad esempio, che personaggi pubblici raccontino la loro storia (di “vincenti o perdenti”) alla televisione o su una rivista dichiarando di essere stati colpiti dalla depressione e di esserne usciti grazie alla propria forza di volontà o al calore dei familiari o degli amici, e invitando le persone depresse a diffidare dei farmaci e di qualsiasi altro intervento specialistico.
Nella quasi totalità dei casi si tratta di persone che non hanno sofferto di una vera depressione, ma hanno soltanto attraversato un periodo di demoralizzazione, e il loro messaggio può essere dannoso per le persone veramente depresse e per i loro familiari, che possono essere indotti a non iniziare o a interrompere una terapia che sarebbe stata efficace. Il secondo equivoco fondamentale nasce dal fatto che la depressione viene spesso considerata una condizione unitaria e omogenea, che si manifesta sempre allo stesso modo, che ha sempre la stessa origine e che si cura sempre allo stesso modo, mentre in realtà non esiste la depressione, ma esistono le depressioni, cioè una gamma di condizioni che si manifestano in maniera differente, nella cui genesi i fattori biologici, psicologici e sociali intervengono in misura differente, e che di conseguenza si curano in modo differente. Il terzo equivoco, che abbiamo forse tacitamente mutuato dalla belligerante cultura anglo/americana è che la depressione sia “la conseguenza di un fallimento che porterà ad altri cosiddetti fallimenti” e “un male che si deve combattere”. Il senso di colpa è il sintomo maggiore quando si ha la depressione e spesso viene proprio da quella parte ipercritica di noi che giudica severamente “l’essere perdenti”. Ora, se c’è una cosa che invece una persona realmente depressa dovrebbe cominciare a fare non è una guerra, ma proprio il contrario: smettere di combattere, almeno per un po’, riposarsi mentre ci si consente di essere – e farsi magari aiutare ad essere – semplicemente come si è. Forse un po’ ipersemplificando: analizzare ed accettare pienamente il proprio “fallimento” è il punto di partenza per tornare ad avere “successo”.