Cultura è Salute

Tra la Cura e il Prendersi Cura
di ELENA FAZIO

3 Novembre 2022

La comunicazione è la fonte della nostra essenza.
L’essere umano comunica con le parole, i gesti, le emozioni, i pensieri, le infinite sfumature della personalità. Comunicare vuol dire anche prendersi cura di qualcosa, di una piccola parte del nostro mondo, della microsfera che ci guarda, ci riguarda ed esiste.
La trasmissione dell’atto comunicativo varia a seconda dei contesti specifici in cui ci si trova, non è in nessun modo sostituibile da azioni che prevedono l’assenza dello scambio umano. 

La medicina tradizionale si è sempre posta il problema di catturare la migliore evidenza scientifica, i dati statistici più aggiornati e le sperimentazioni mediche più accurate.
Il drammatico contesto emergenziale da pandemia Sars-Cov-2 ha portato alla luce molteplici lacune relative all’approccio comunicativo tra i medici e la popolazione. Quest’ultima si aspettava e sperava in parole di rassicurazione o conforto, come da luogo comune delle dichiarazioni in televisione, e invece ha ottenuto messaggi distorti in relazione all’estinguersi della crisi. Durante l’emergenza sanitaria, i medici, prevalentemente formati in maniera scientifica e poco incline al linguaggio ‘comune’, spiegavano ed analizzavano l’evidenza scientifica, contando i “casi”.

La popolazione non aveva forse bisogno di una cura interiore, emozionale, psicologica?

Da tale scenario vissuto da tutti e diventato luogo comune, diventa ora più facile comprendere lo stato emotivo di un paziente rifacendosi all’esperienza recentemente vissuta. Un paziente che quotidianamente soffre per una malattia comune o una patologia rara, che prova a convivere con un dolore inspiegabile, e che in tutto ciò non riesce a dialogare riguardo il suo stato d’essere con il proprio medico di fiducia.
Sta dunque in questa lacuna alle basi dell’essere umano che è necessario scavare nel profondo della relazione tra il medico e il paziente, eliminando la falsa percezione sul ruolo di inferiorità ed astrazione del malato, inteso come malattia da guarire, corpo da “aggiustare”, bravura professionale del curante da mostrare.

La motivazione di questa riflessione risiede nella speranza che la medicina e tutti gli operatori della salute possano rendersi conto dell’essenza umana intrinseca alla loro professione: incentrata sulla cura con l’onere del prendersi cura del paziente.
Partendo dallo sviluppo di un processo empatico che governi la relazione di cura, passando attraverso il regno del linguaggio e della parola nel dettaglio, fino ad arrivare al delicato linguaggio del corpo e della medicina narrativa, allora si propone un approccio multidisciplinare ed integrativo a guarire anche l’anima di una persona.
L’obiettivo di questa tesi è quello di attrarre la consapevolezza del potere della comunicazione tra il medico e il suo paziente, quello di aiutare i medici ad entrare in empatia ed in simpatia con il malato, ad ascoltare e riflettere sulla sofferenza, il dolore e l’incertezza soggettiva al paziente, non più al caso clinico.
È importante apprezzare che realisticamente i medici non abbiano a disposizione il tempo materiale per poter conoscere pienamente l’immensa portata del mondo culturale e umanistico. Basterebbe appunto delicatezza e gentilezza delle parole e nei gesti a costruire una profonda connessione con il paziente e dunque stabilire l’essenza di un rapporto umano diretto alla cura.

Infatti, come dimostrato da diversi studi di Psiconcologia, sono proprio le capacità comunicative a rappresentare le qualità mancanti anche al buon medico, e che soprattutto non vengono acquisite con esperienza propria o tramandata.  Emerge, dunque, una lacuna di natura propriamente umanistica nell’insegnamento empirico della medicina clinica. Questo percorso ad ampio raggio non intende colpevolizzare il medico poco incline al rapporto umano con il paziente, piuttosto, è mirato ad evidenziare l’errata percezione di normalità da parte del sistema sanitario verso questo comportamento distaccato, senza invece promuovere percorsi di sensibilizzazione a riguardo.

Volgendo a termine delle considerazioni pratiche, pensiamo, se per entrare alla facoltà di Medicina richiedessero una prova di empatia, quanti studenti indosserebbero realmente quel camice bianco?

Siamo al corrente di quanto il mondo della ricerca scientifica evolva continuamente e la maggior parte dei medici rimane ancorata ad una visione ancora troppo obiettiva della medicina. Sarebbe necessario sensibilizzare i professionisti della cura ad intraprendere un percorso orientato al benessere globale del paziente, nelle sue dimensioni sociali, psicologiche e culturali, superando l’approccio materialistico che governa la malattia, nel suo stato organico. Grazie alla comunicazione tra il medico e il paziente si può ripensare alla medicina in una visione olistica. La medicina dell’uomo e non più soltanto del corpo.

A tal proposito l’approccio bio-psico-sociale, introdotto dallo psichiatra statunitense George Engel, ambisce ad introdurre un modello di medicina globale, basato sulla scienza e che porti i pazienti a sentirsi liberi di essere persone capaci di provare emozioni e non corpi malati.
Dunque comunicare non vuol dire eliminare le basi della scienza medica, ma integrarle con le basi della cultura e delle scienze umane. I medici non sono tenuti a diventare psicologici, antropologi o professionisti della comunicazione. Tuttavia hanno la scelta di imparare qualcosa, anche un piccolo e agile esercizio quotidiano, che può risultare fondamentale al paziente per vivere meglio la relazione di cura.

Una corretta relazione tra il medico e il paziente è quella paritaria, non più soltanto un interrogatorio del medico nei confronti del paziente, ma piuttosto una collaborazione trasparente, un confronto, una trasmissione di qualità tra curante e malato.
Gli aspetti clinici della professione medica si studiano e analizzano, gli aspetti culturali ed umanistici si possono acquisire nel tempo. Non è scontato, per i medici, riuscire a trasmettere positività e sicurezze ai pazienti, nel delicato contesto sanitario, però è possibile provare ad immedesimarsi in loro, per cogliere quell’emozione, pensiero o sensazione che possa salvare un momento dal dolore. Possiamo augurarci che, tutti i presenti e futuri medici, attraverso l’essenza di questa riflessione, possano percepire l’importanza di indossare un camice ogni giorno e la responsabilità di creare una connessione umana con il paziente.

Comunicare non vuol dire informare.
Comunicare vuol dire partecipare, trasmettere, condividere un patto di fiducia ed alleanza tra medico e paziente.
Soltanto in questo senso, la comunicazione in sanità e, più profondamente tra medico e paziente, potrà diventare componente essenziale e imprescindibile del percorso di cura nella sua totalità.
Marcel Proust, già allora diceva: una gran parte di quello che i medici sanno, è insegnato loro dai malati.
E forse sarà vero che è proprio la prospettiva dei pazienti a trasmettere al medico cosa si prova ad essere curati e dunque ad (essere) umani.