Medici-Scrittori

Sono un gesuita mancato o un velista fallito?
di ANACLETO REALDON

18 Settembre 2024

Non lo sono, un gesuita, ma ho rischiato di diventare un prete gesuita. E magari contendere il soglio pontificio a Papa Bergoglio, il primo papa gesuita della storia. Ma questa è un’altra storia.
Mi son ricordato del mio passato pretesco, perché invitato a riesumare la mia carriera militare, in quanto, quello dei gesuiti, è l’ordine religioso più “militare” (Sant’Ignazio di Lojiola, il fondatore dell’ordine, era un soldato). Sì, ho svolto il servizio militare, quando era d’obbligo la leva militare.
Sono stato un ufficiale dell’Aeronautica, ma avrei voluto assolvere tale obbligo arruolandomi in Marina, peccato che allora l’arruolamento prevedesse almeno 24 mesi di ferma.
Mi sentivo, infatti, più marinaio che aviatore, perché era l’epoca in cui iniziava la mia passione per le barche a vela ed il mare. Comunque ero un soldato nell’intimo. Per l’impegno militaresco che mi è stato inculcato in 10 anni di frequentazione in una scuola di gesuiti. Un impegno di vita che mi accompagnò e facilitò nella mia carriera professionale.

Primario a 28 anni e Direttore a 33, forse solo un mostro di intelligenza e bravura poteva raggiungere simile exploit. Al contrario, sono convinto di non averlo del tutto meritato questo successo. A meno che qualcuno, conoscendo il mio passato gesuitico, mi volesse considerare un predestinato a grandi imprese. Ma fin da bambino mi consideravo uno degli ultimi, condannato ad un’esistenza grama e precaria.
Malaticcio, fui oggetto di attenzioni e protezioni fin dalla nascita. Ed appena raggiunta l’età scolare, credevo d’essere destinato, come massima aspirazione dell’ambiente contadino da cui provenivo, ad una modesta e nascosta carriera ecclesiastica. Riuscii a perdere anche questa opportunità, tanto agognata da mia madre, segnando così uno dei primi e più cocenti insuccessi: fui bocciato, dopo lunghi anni di seminario, all’esame di vocazione sacerdotale.
Nemmeno il prete ero in grado di fare. Forse almeno il missionario laico: come studente di medicina cercai infatti di ipotecare l’esercizio della mia futura professione, destinandolo in un lontano e sconosciuto paese dell’Africa. Appena laureato sceglievo poi Psichiatria, la specialità medica più negletta e meno prestigiosa, quella che mi avrebbe condannato a vita in manicomio, forse non solo professionalmente.

Le scelte della mia vita erano sempre ispirate più che da altruismo, da un insano ed innato nichilismo. Non brillavo per i miei successi, semplicemente mi nascondevo in una “aurea mediocritas” che fu scambiata per umiltà ed innocuità. Fu più per questo forse, e non solo per merito, che inaspettatamente riuscì a spuntarla in un ambiente tra i più competitivi e litigiosi, quello medico.
Ben presto (troppo presto) fui così investito controvoglia di incarichi direttivi di massimo livello che segnarono la mia fortuna, ma anche la mia condanna. Come un bambino che ha dovuto crescere in fretta, ma che non ha potuto vivere la propria giovinezza, condannato com’era a fare l’adulto anzitempo.
E che dire della mia vita sentimentale?
Tramontato il celibato, cui ero inizialmente destinato, dovetti accettare una donna, la prima, che non fosse troppo donna secondo gli standard allora in voga e che somigliasse in tutto e per tutto a mia madre, che mi avrebbe voluto prete. Una donna forte e direttiva nei riguardi della quale io avessi potuto perpetuare il mio sentimento di inferiorità ed inadeguatezza nei confronti non solo del genere femminile (forse anche quello nei confronti di tutto il genere umano), ma che, nei passati 50 anni di matrimonio, mi ha dato tre figli e, a scalare, sei nipoti.

E fu per questo che, cresciuto troppo in fretta, o non cresciuto affatto, abbandonai, sempre anzitempo, la professione e forse la famiglia per dedicarmi, in un primo momento ad un volontariato medico in un ospedale del Cappuccini a Capoverde ed infine ad una vita disperata tra i “disperati” dell’epoca moderna.
Mollare tutto per l’ultimo viaggio con il giro del mondo in barca a vela.
Il mezzo più lento, scomodo ed insicuro. Fallì anche questo “ultimo” atto eroico. Attraversato l’oceano (il primo) me ne tornai vigliaccamente in aereo.
Fallito come velista, come medico e come uomo. O no?

P.S. No, è una chiara provocazione, questo paradossale resoconto di una vita che è stata in realtà piena e soddisfacente in tutti e tre i citati versanti.

Voleva essere un modo inusuale per presentarmi:
sono o non sono “Il Pensionauta folle“? (il mio ultimo libro, Il Frangente Editore)