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Il Leone d’oro di Venezia riporta alla ribalta il tema dell’aborto
In Italia 7 medici su 10 sono obiettori di coscienza

18 Settembre 2024

Di Marianna Rillo, ufficio legale Club Medici.

Per la seconda volta consecutiva è una donna a vincere il Leone d’oro di Venezia.
L’événement della regista francese Audrey Diwan, ha recentemente vinto il premio per il miglior film della 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia. Il film racconta la storia di una giovane universitaria francese che nel 1963 decide di sfidare la legge per interrompere la gravidanza con un aborto clandestino.
La regista dice “La mia speranza è che l’esperienza trascenda il contesto temporale della storia e le barriere di genere” e si interroga: “Qual è il destino di una giovane donna che si misura con un aborto clandestino?”

Quando, nel 1978, è stata introdotta nel nostro Paese la legge n.194 per la tutela sociale della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza (IVG), vi era l’obiettivo di fornire libertà di scelta alla donna, così da evitare gli allora purtroppo comuni aborti clandestini che mettevano a repentaglio la salute e talvolta la vita di coloro che vi ricorrevano.

Ma oggi, dopo anni di lotte femministe, una donna è davvero libera di scegliere di non essere madre?

Nonostante siano trascorsi 43 anni dalla legalizzazione dell’aborto in Itala, la questione relativa all’IVG, rappresenta un grande punto interrogativo nella sfera dei diritti delle donne.
In molti paesi l’aborto è consentito solo in casi estremi o, addirittura, considerato illegale. Particolare è il caso della Polonia, dove il 22 ottobre 2020, una sentenza del Tribunale Costituzionale ha dichiarando l’IVG anticostituzionale. Inutile dire che numerose associazioni che combattono quotidianamente per i diritti femminili sono scese in piazza a manifestare contro questo “passo indietro” nella civiltà occidentale, soprattutto se si considera che la Polonia è uno Stato membro UE e, come tale, è tenuta a rispettare la linea comune europea che riconosce il diritto all’aborto come un diritto fondamentale della donna. Non a caso, infatti, a seguito della drastica svolta polacca si è espresso anche il Parlamento Europeo, che con una risoluzione del 26 novembre 2020, ha sottolineato che in linea con la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, le leggi restrittive sull’aborto sono considerate una vera e propria violazione dei diritti umani delle donne. Il Parlamento ha ribadito, con vigore, come questi siano diritti fondamentali e come le istituzioni UE e gli Stati membri abbiano l’obbligo giuridico di rispettarli e proteggerli.
Ma non serve andare troppo lontano per scontrarsi con scelte rigide e di indirizzo ultra conservativo. Nella vicina Repubblica di San Marino vige ancora una legge del 1865, secondo la quale l’aborto è illegale e sono previste pene durissime per chi interrompe la gravidanza, dai tre ai sei anni di reclusione, e non solo per la donna, ma anche per il medico o per chi l’aiuta ad abortire. E finalmente, il 26 settembre prossimo, dopo 18 anni di dure battaglie, i cittadini della Repubblica di San Marino, con un referendum popolare, saranno chiamati a decidere se rendere legale l’aborto entro i confini del loro Stato.
Tutte queste donne alle quali oggi non viene concessa la facoltà di decidere se essere o meno madri, sono costrette a raggiungere i Paesi più vicini dove invece l’aborto è permesso. Inutile dire che le restrizioni ai viaggi imposte dalla pandemia hanno reso gli spostamenti molto complicati, o addirittura impossibili, privando così migliaia di donne di un proprio diritto. E se alla pandemia poi si aggiunge, da sempre, la difficoltà economica che rende impossibili questi viaggi, non resta altra scelta che ricorrere, ancora una volta, al cd. aborto clandestino con tutti i rischi del caso.
A tal riguardo occorre evidenziare, che in Italia il legislatore nel 2016 ha depenalizzato l’IVG clandestina, ma ha inasprito le sanzioni amministrative. La sanzione pecuniaria da una simbolica cifra di 51euro[1] (che lasciava alle donne la possibilità di andare in ospedale in caso di complicazioni post intervento e anche di denunciare chi praticava aborti fuori dalla struttura pubblica), è stata innalzata ad una multa che va dai 5.000 ai 10.000 euro, tutto con un’unica conseguenza, che spesso sono le stesse donne a pagare con la loro vita. Si perché questa salatissima multa, che si abbatte come un macigno sulle scarse risorse economiche di precarie, immigrate o indigenti, potrebbe diventare un deterrente per il ricorso alle cure ospedaliere, con gravi conseguenze sulla loro salute. Tutto ciò non fa altro che alimentare il fiorente mercato clandestino delle sostanze abortive.
Il tema dell’IVG è sempre molto caldo e l’attenzione dimostrata al festival di Venezia testimonia, ancora una volta, quanto sia percepito dalla collettività come una piaga sociale.

Il dibattito vede contrapposte due posizioni principali.

Da una parte i no-choice (o anche detti pro-life). Interprete di questo fronte è il Movimento per la Vita, nel quale confluiscono forze laiche e religiose (cattoliche, ortodosse e alcuni gruppi protestanti). I sostenitori di queste tesi considerano l’embrione un essere umano a tutti gli effetti. A tal riguardo, Papa Francesco, nel corso dell’ultima udienza generale tenutasi il 15 settembre, è tornato a parlare dell’aborto come atto contro la vita e utilizza parole molto dure, sostenendo che l’aborto è un vero e proprio omicidio.

Dall’altra parte troviamo invece i pro-choice, coloro che non ritengono di poter giudicare motivazioni così personali, che difendono il diritto alla scelta, all’aborto sicuro, alla salute riproduttiva e che non considerano un embrione un essere umano compiuto.

A questo punto, è necessario, ripercorrere brevemente la disciplina in tema di aborto al fine di avere un profilo normativo chiaro.
Il primo articolo della legge n.194, del 22 maggio 1978 afferma che “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile”, il che significa consentire a chi non volesse portare avanti la gravidanza il diritto di interromperla volontariamente.
Gli articoli successivi ne individuano le condizioni e le modalità applicative.
Le procedure sono essenzialmente due, una detta ordinaria[2] rimessa alla libera determinazione della donna, per la quale è necessario rispettare il termine di 90 giorni dall’inizio della gravidanza, e una urgente[3], prevista anche oltre i 90 giorni, nei casi in cui la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando vi siano in corso delle malattie (anomalie o malformazioni del nascituro) che mettono in pericolo la salute fisica e psichica della futura madre.
In questo contesto rilevano i consultori [4] e le strutture socio-sanitarie[5], che oltre a dover garantire i necessari accertamenti medici, hanno anche il compito di aiutare la donna (specialmente quando la richiesta di IVG sia dovuta alle condizioni economiche o sociali della stessa) a superare le cause che la portano ad una simile decisione[6]. Per cui, al di fuori di questi casi in cui vengono offerti alla donna tutti gli aiuti necessari, sia durante la gravidanza che dopo il parto, quando si è in presenza di condizioni tali da rendere urgente l’intervento, alla donna viene rilasciato un certificato con il quale può rivolgersi immediatamente ad una delle sedi autorizzate per procedere con l’interruzione. Se, invece non viene riscontrata un’ipotesi di urgenza, le viene consegnato un documento attestante lo stato di gravidanza con la relativa richiesta di IVG, con l’invito a soprassedere per sette giorni (evidentemente per riflettere), trascorsi i quali, può comunque procedere all’aborto.
La donna gode inoltre della tutela del segreto, è infatti punito ai sensi dell’art. 622 c.p. chi rivela l’identità o diffonde notizie che permettono di identificare chi ha interrotto la gravidanza.

Nonostante il legislatore con la legge n.194 abbia, quindi, previsto astrattamente il diritto di abortire, numerose sono le difficoltà pratiche per attuare concretamente tale diritto.
Un primo ostacolo si rinviene proprio nella prevalenza dei medici obiettori di coscienza (in Italia 7 medici su 10 sono obiettori).
La legge n.194, al suo art.9, riconosce agli obiettori il diritto di non praticare l’IVG, e quindi di non prendere parte alle procedure di cui agli artt.5[7] e 7[8] della stessa normativa. La dichiarazione dell’obiettore deve essere comunicata al medico provinciale e nel caso di personale dipendente dell’ospedale o dalla casa di cura, anche al direttore sanitario e può essere revocata in qualunque momento.
Ma se da un lato questi medici possono decidere di non praticare l’interruzione, dall’altro sono tenuti a rispettare il diritto della donna di autodeterminarsi, assistendola, sia nella fase che precede un intervento così invasivo, che nelle fasi successive, al fine di evitare ogni possibile rischio per le condizioni cliniche e di salute della donna[9].

A tal riguardo una nota sentenza della Corte di Cassazione[10] ha contribuito a chiarire il significato del menzionato art.9. La pronuncia è utile per comprendere come e quando i medici devono prestare assistenza medica, anche qualora obiettori di coscienza.
La sentenza impugnata innanzi alla Corte di Cassazione, aveva ad oggetto il caso di un medico obiettore che rifiutava di prestare assistenza durante un intero processo di IVG, ossia dalla fase di espulsione del feto sino a quella conclusiva di espulsione della placenta.
Il medico era stato condannato della Corte d’Appello di Trieste, per rifiuto e omissione di atti d’ufficio ex art.328 c.p., ad un anno di reclusione, interdizione per un anno dall’esercizio della professione medica, oltre che al risarcimento dei danni alla parte civile liquidati in euro 8.000,00.
Nel caso di specie la paziente aveva subito un’IVG con somministrazione farmacologica, e l’intervento aveva preoccupato l’ostetrica per il rischio di emorragia. Nonostante le sollecitazioni del primario, del direttore sanitario, dell’infermiera di turno e dell’ostetrica, ciò a voler segnalare una oggettiva situazione di rischio per la paziente, il medico continuava a non prestare assistenza successiva all’aborto.
A questo punto occorre segnalare che, in aggiunta a quanto già detto in merito all’art.9, comma 3 (secondo il quale il medico deve prestare assistenza antecedente e conseguente all’intervento), il comma 5 prevede inoltre che l’obiezione di coscienza non possa essere invocata quando, data la particolarità delle circostanze, l’intervento è indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo.
L’accusa sulla base di queste stesse considerazioni sosteneva che il medico, anche se obiettore di coscienza, avrebbe dovuto assistere la paziente.
La Cassazione ha ritenuto che il comportamento del medico non potesse trovare giustificazione nel diritto all’obiezione di coscienza, in quanto quest’ultima incontra il limite del pericolo di vita della donna.
Trattandosi di aborto farmacologico, l’obiezione avrebbe dovuto essere limitata alle sole pratiche di somministrazione e predisposizione di farmaci abortivi, con la diretta conseguenza che al medico imputato sarebbe spettato di assistere la donna nella fase successiva e tutelarne la salute visto il pericolo di emorragia.
La Cassazione ha dunque confermato quanto deciso dalla Corte d’Appello di Trieste e ha condannato al pagamento delle spese processuali.

Il Ricorso all’obiezione di coscienza, quindi, non autorizza il medico a disinteressarsi completamente della donna, alla quale, nell’esercizio di un suo diritto fondamentale, deve essere sempre garantita assistenza.

L’obiezione di coscienza rappresenta davvero un grande ostacolo per il ricorso all’IVG. Ed è semplice comprendere l’entità di questo fenomeno se solo si considerano i dati[11]dell’ultima Relazione del Ministro della Salute sull’attuazione della legge 194/1978.
A Matera, in Basilicata, l’unico medico non obiettore di coscienza è andato in pensione a fine 2020, costringendo le persone a spostarsi fino a Potenza per abortire. In Lombardia, dove la percentuale di ginecologi obiettori supera il 70%, è stata di recente bocciata la proposta di legge di iniziativa popolare “Aborto al Sicuro”[12], che prevedeva una serie di soluzioni per facilitare l’applicazione della legge n.194. Nelle Marche e in Piemonte i consultori non possono somministrare la pillola abortiva (RU486), andando contro le linee guida nazionali dettate dal ministero della Salute, addirittura finanziando l’ingresso di associazioni no-choice nei propri ospedali. In Molise il 96,4% dei medici sono obiettori di coscienza. A Bolzano si arriva all’87% mentre in Abruzzo, Puglia, Basilicata e Sicilia si supera l’80%. In Campania, le strutture in cui si pratica l’aborto sono meno del 30%.
Alla percentuale di ginecologi poi va aggiunto il numero di anestesisti obiettori (56%), e quello del personale non medico (42%), come gli infermieri e gli operatori socio-sanitari. A tal riguardo, Silvana Agatone, ginecologa e presidentessa di Laiga (Libera associazione italiana ginecologi per l’applicazione della legge n.194) sostiene che sia “bizzarro” parlare di obiezione di coscienza per anestesisti e personale non medico, in quanto entrambi svolgono atti che non determinano l’atto di interruzione in sé. E ironizza: “Se ammettiamo la loro possibilità di ricorrere all’obiezione, allora dovremmo ammetterla anche per i camionisti che trasportano i farmaci per l’aborto farmacologico”.

Alla luce di questi dati una domanda appare necessaria. Come si spiega un numero così elevato di obiettori?

Ferme le convenzioni religiose ed etiche, che evidentemente pure incidono in una simile scelta, alcuni studi hanno evidenziato l’esistenza di una significativa percentuale di operatori che hanno giustificato la propria posizione, quali obiettori, sulla scorta di ragioni molto diverse.
Gli interventi di IVG sono considerati operazioni poco gratificanti, sia in ottica di crescita professionale, vista la loro natura routinaria (per cui i medici che accettano di praticarle sono spesso costretti a farne un gran numero, con il rischio di vedere arenata la propria carriera in un ambulatorio, riducendosi a fare solo quello per tutta la vita), sia in una prospettiva economica, dal momento in cui l’IVG è una delle poche pratiche che in Italia non può essere intramoenia[13]. I medici hanno più volte dichiarato che non ricorrerebbero all’obiezione di coscienza se questi interventi potessero essere praticati in libera professione, all’interno degli ambulatori, facendosi pagare dalle pazienti.
È un circolo vizioso. La mancanza di risorse economiche, come già detto, se da un lato non permette di affrontare i viaggi necessari per recarsi nei Paesi dove l’aborto è consentito (nei termini di legge), dall’altra, allo stesso modo, non consentirebbe a tante donne di rivolgersi a questi medici, qualora l’intervento fosse introdotto a pagamento, e si finirebbe, ancora una volta, ad alimentare il mercato clandestino delle sostanze abortive.
Quindi più che rendere l’IVG intramoenia, per provare a risolvere le problematiche che a volte portano i medici a dichiararsi obiettori di coscienza, c’è chi ha suggerito l’introduzione di incentivi economici. Alcuni ospedali dell’Emilia-Romagna, Puglia e Lazio, invece, hanno addirittura promosso concorsi aperti ai soli medici non obiettori, concorsi che invece i TAR della Liguria e della Campagna hanno bloccato.

A questo punto, volendo essere ancora più concreti, sorge spontanea un’ulteriore domanda. Visto il particolare periodo storico che stiamo vivendo, quanto è difficile per una donna accedere all’IVG?

Inutile dire che la pandemia ha aggravato gli ostacoli all’aborto legale ed ha evidenziato il labirintico sistema italiano per accedervi[14]. Nel pieno della crisi gran parte dei reparti di IVG sono stati chiusi per lasciare i letti ai malati di Coronavirus, mentre i pochi anestesisti non obiettori sono stati destinati alle terapie intensive. C’è chi ha definito questa situazione “una tragedia nella tragedia”[15]. E oggi a distanza di un anno, per molte donne l’accesso all’IVG è quasi impossibile a causa del sovraffollamento di prenotazioni. Ciò a dispetto del fatto che le linee guida ministeriali la definiscano una prestazione indifferibile, anche in caso di positività al virus.
L’emergenza “194” all’interno dell’emergenza “Coronavirus” potrebbe davvero minacciare la sopravvivenza del diritto all’aborto sicuro.
Molti sono gli appelli al Governo perché si attivi urgentemente per favorire l’assunzione di medici non obiettori, incentivare le Regioni in funzione dell’efficienza del servizio di IVG, favorire il ricorso alla telemedicina per i colloqui video tra paziente e medico, e ottenere il rilascio telematico del certificato necessario per procedere all’aborto.
Molte sono anche le associazioni[16] che stanno analizzando le criticità della legge n.194 ormai non più sostenibili, al fine di arrivare alla proposta di modificare una legge che se da una parte non funziona perché non applicata correttamente, dall’altra contiene in sé le ragioni della sua inadeguatezza.

Segue… approfondimento su accesso all’IVG durante il COVID-19.


[1] Legge n.194, art.19
[2] Legge n.194, art.5, comma 5
[3] Legge n.194, art.7
[4] Legge 29 luglio 1975 n.405, art.2 lettera a)
[5] Legge n.194, art.4
[6] Legge 194, art.5, comma 1
[7] Procedura ordinaria entro il termine di 90 giorni
[8] Procedura urgente anche oltre i 90 giorni
[9] Legge n.197, art.9, comma 3
[10] Cassazione penale n. 14979
[11] Relazione del Ministro della salute sull’attuazione della legge n.194 (aggiornata al 2018); Libera di abortire
[12] Associazione Luca Coscioni (Aborto al sicuro)
[13] Il post.it aborto-obiezione-coscienza-Italia
[14] Studio condotto da Hillary Margolis, ricercatrice esperta sui diritti delle donne a Human Rights Watch
[15] Silvana Agatone, ginecologa e presidentessa di Laiga, associazione storica nata per difendere la legge n.194
[16] Tra le quali AMICA e Associazione Luca Coscioni