18 Settembre 2024
Pneumologa e ricercatrice, specializzata in infezioni respiratorie, la Dottoressa Eva Polverino da quasi 20 anni vive e lavora a Barcellona, è una delle eccellenze mediche italiane all’estero, impegnata da mesi in prima linea nella lotta al Covid in Spagna.
Innanzitutto, essendo lei operativa in Spagna, le chiedo che tipo di situazione emergenziale si sta vivendo in questo momento e come vede “da lontano” l’Italia?
In questo momento le priorità e le emergenze sono molto cambiate dall’anno scorso, quando sapevamo poco o nulla di questa infezione. Adesso i maggiori problemi sono contenere le nuove ondate, accelerare la vaccinazione nei limiti del possibile e applicare le nuove conoscenze scientifiche al trattamento dei casi COVID. Il primo punto implica un grande sforzo comunicativo e soprattutto saper trasmettere in modo proporzionato e corretto il rischio legato alle abitudini della vita sociale e lavorativa. La società soffre in questo momento i sintomi della paura. Il secondo punto può risolversi solo attraverso la stretta collaborazione tra istituzioni politiche/amministrative e scientifiche: se queste due entità non vanno di pari passo, i tempi si possono allungare e questo ha un costo di vite umane altissimo. Il terzo punto è forse la parte più positiva di questa storia: mai prima d’ora avevamo visto tanti ricercatori lavorare all’unisono, in tutti i possibili campi della scienza, per sconfiggere un nemico comune. I tempi della ricerca sono stati incredibilmente rapidi e la comunicazione straordinaria. Da questo possiamo solo imparare per il futuro quanto sia importante dare spazio alla scienza e alla ricerca. Ricerca è vita. Italia e Spagna si muovono in parallelo, secondo me, con piccole differenze nei tempi dovute alla logistica, ma credo che siano oramai in sintonia come molti altri paesi europei.
Pensa che, con l’arrivo dei vaccini, ci avviciniamo alla “risoluzione” del problema o ci aspettano ancora mesi difficili?
Quanto prima arriviamo a vaccinare la maggior parte della popolazione, prima si arriverà a controllare la situazione. A ciò si aggiungono altre variabili, quali la capacità del virus di generare mutazioni vantaggiose per la sua sopravvivenza, la coscienza civile di continuare a rispettare le norme di igiene pubblica, la rapidità con la quale arriveranno nuove soluzioni terapeutiche (soprattutto farmaci antivirali e antinfiammatori/immunomodulatori), le variazioni legate alla stagione (d’estate si sta più all’aria aperta e d’inverno stiamo più al chiuso), la circolazione di persone tra paesi ecc. Le variabili sono molte e sicuramente alcune non le conosciamo ancora. Fare previsioni è difficile ma tutto ciò che aiuta a controllare il virus va fatto al 100% e con rapidità. Certamente con tutte queste variabili non possiamo fare previsioni rosee o troppo ottimiste sulla possibilità di poter controllare a breve termine la pandemia. Staremo a vedere, ma i risultati della vaccinazione in Israele e nelle residenze per anziani sono positivi.
Lei ha vissuto il Covid in prima persona; alcuni mesi fa è stata contagiata: che esperienza è stata e cosa le ha insegnato?
È stata un’esperienza MOLTO MOLTO dura, come medico, come paziente e come persona. In una situazione cosi drammatica i limiti tra ciò che è vita personale e lavorativa sono totalmente sfumati e questo aumenta lo stress in modo esponenziale. Da marzo in poi non so quanti momenti liberi dal pensiero “COVID” abbiamo potuto vivere come medici direttamente coinvolti. La cosa peggiore è sicuramente il sentimento di frustrazione e impotenza, soprattutto quando ho scoperto di essere positiva e di dover rimanere a casa isolata, invece di essere in ospedale con i miei compagni di lavoro. L’obbligo mentale e professionale di dover resistere ti mantiene in piedi per tempi lunghissimi, ma ci sono sempre dei momenti di sconforto in cui solo le lacrime possono sfogare la tensione. Come paziente è stato ed è ancora difficile. Ricordo quando ho avvertito i primi brividi di febbre, il primo pensiero agghiacciante: “5%… potrei essere in quel 5% e morire…” tutto perde senso. Poi il primo pensiero è stato quello di proteggere la mia famiglia, mi sono isolata da mio marito, ho evitato di comunicarlo alla mia famiglia in Italia per non preoccupare nessuno. Sono stata invasa da una tempesta di paura, preoccupazione, rabbia e desiderio di essere ottimista. Invece come medico e come persona credo che la cosa più difficile sia stata cercare di controllare l’eccesso di empatia: quando il medico, la paziente, l’amica, la sorella, la figlia, la vicina, ecc si confondono e si uniscono diventa difficile ritrovare i limiti per comportarti nel modo più adeguato alla situazione e alla persona che hai di fronte. Alcuni si aspettano da te un consiglio per ritrovare la tranquillità, altri hanno bisogno soltanto di una carezza o semplicemente di essere ascoltati. Per fortuna l’essere umano riesce ad abituarsi e adattarsi a quasi tutto e alla fine mi sento solo una tra i tanti milioni di persone che aspettano di tornare alla serenità.
Le donne medico hanno svolto e stanno oggigiorno continuando a svolgere un ruolo di primo piano nella ricerca: quanto la lusinga?
Certo, questo è vero! Tra i medici, i ricercatori e gli studenti in medicina sono sempre di più le donne che possono dimostrare le loro abilità scientifiche e le loro immense doti di empatia, pazienza e intelligenza emozionale, che spesso contraddistinguono proprio di più le donne rispetto ali uomini. Mi auguro quindi che il grande contribuito delle mie colleghe nella ricerca scientifica rappresenti in futuro l’opportunità per far scomparire le differenze, che ancora oggi ci sono e sono evidenti, nel trattamento rispetto agli uomini e nelle opportunità di carriera che le donne potranno avere.