18 Settembre 2024
La grande sinergia tra i centri di ricerca di tutto il mondo ha fatto sì che le prime dosi di vaccino siano state disponibili in meno di un anno, un tempo record. Ne parliamo con Fabrizio Consorti, medico chirurgo, docente universitario e Presidente del Comitato Scientifico “Cultura è Salute”.
Al di là delle polemiche e dei dibattiti quotidiani, la campagna di vaccinazione anti-Covid rappresenta un evento senza precedenti. Ci spiega perché?
Quello che è successo con la produzione rapidissima di vaccini efficaci contro il Covid, e che a qualcuno ha causato preoccupazione proprio per via dei tempi così rapidi, in realtà a mio giudizio rappresenta un evento storico senza precedenti che dimostra un’evidenza su tutte: quando i centri di ricerca si scambiano dati ed informazioni il processo è più rapido e consente di arrivare all’obiettivo molto più celermente. È la prova provata di come la cooperazione potenzia e velocizza il processo di produzione di nuova conoscenza. Adesso bisognerà osservare che uso faremo dell’esperienza che stiamo vivendo in questi mesi difficili. Si sente chiedere spesso di voler “tornare alla normalità”, ma si sostiene anche che è stata proprio la precedente normalità a causare la situazione in cui siamo ora. Teniamo presente che nessuno esce da una prova difficile com’era prima; si esce sempre cambiati. Mi auguro che tutto questo apra nuove prospettive, che generi una società molto più cooperativa e globalizzata. Ci sono molti elementi positivi e proprio questa intensa collaborazione tra diversi fronti di ricerca potrebbe essere uno degli elementi positivi della globalizzazione.
Sarà ora necessario lavorare sulle paure della popolazione nei confronti del vaccino per scardinare gli attuali pregiudizi?
Paura è proprio la parola chiave. Potrei fare ora una riflessione sui meccanismi cognitivi che indirizzano il comportamento delle persone e causano spesso pregiudizi, ma vorrei invece tornare proprio al tema della paura: è una delle emozioni fondamentali che ha protetto la nostra specie nell’arco dei millenni. La paura ci protegge dal portare avanti azioni pericolose, ma se diventa uno stato cronico allora non va bene perché si trasforma in una malattia. C’è un senso esteso di paura non solo per il contagio che si diffonde, ma anche per il nostro modo attuale di vivere. La paura e le emozioni in generale vanno prese sul serio, non si può colpevolizzarle, bisogna tenerle in considerazione: il primo messaggio per tutti è quindi che abbiamo bisogno di meccanismi culturali di elaborazione della paura. Pensiamo ad esempio al ruolo delle opere teatrali o della filmografia, quanto hanno scardinato paure e pregiudizi negli anni. Il mondo della cultura dovrebbe sedersi di fianco a chi ha paura per aiutarlo a comprendere ed elaborare questo stato d’animo.
Ha parlato di “cultura”. Lei è presidente del comitato scientifico di “Cultura è Salute”, le chiedo quindi come state sviluppando questo progetto, che il 22 gennaio prossimo sarà anche al centro di un primo incontro in streaming con tanti rappresentanti del mondo dello spettacolo e della medicina?
Sono prima di tutto un chirurgo, quindi un medico, ed anche un docente universitario, attivo su entrambi i fronti e, quando mi è stata proposta questa iniziativa, ho aderito con entusiasmo perché credo fermamente nel ruolo cruciale della bellezza nel produrre ben-essere, non solo inteso nel senso restrittivo e del termine. Mi sembra quindi importante l’azione che è iniziata con il network di “Cultura è Salute” ed il 22 gennaio sarà per noi il primo piccolo grande banco di prova; siamo già diffusi in molti ambienti di cura e di produzione culturale ed è molto importante connettere questi due mondi. In Italia ha fatto un po’ da apripista il movimento della medicina narrativa, che è stata anche normata con linee guida specifiche da parte dell’Istituto Superiore di Sanità. La medicina narrativa in sé è un approccio alla cura, la narrazione è uno strumento di cura tanto quanto altri strumenti, ma ha rotto il ghiaccio; sulla scia della medicina narrativa si è diffusa l’idea che la dimensione estetica è connaturata ai processi cognitivi e decisionali. Non c’è alcun motivo per cui il “bello” non debba essere compreso nei processi di cura o nelle relazioni intraprofessionali. Anche noi medici dobbiamo prenderci cura di noi stessi. Credo che non si faticherebbe, da questo punto di vista, a trovare una lunghissima tradizione di esercizio delle arti da parte dei medici. Prima era intesa solo come fatto personale, ma adesso sta emergendo anche come elemento che entra nel sistema delle cure. Da docente penso anche alla strada che stanno compiendo le scienze umane in medicina, che non sono solo antropologia medica, psicologia o bioetica, ma l’utilizzo del bello artistico anche per la formazione dei giovani medici.